Luca Chiti L’INFINITO FUTURO SILLABE IN CRESCENZA
MONOSILLABI Mi fu nel cuor ad or ad or quel mio bel col che sta da sol, e che, con quel che qui vien su dal suol, al ciel là giù là giù mi fa da vel. Ché, se sto qui (che qui pro quo!), par che al di là, man man nel blu, non ci sia più quel che c’è qua: non il cri cri che vien di lì, non il tran tran dei dì che van. Ed è per ciò che il cor va un po’ di qua e di là. Ma se un fru fru a me ne vien dal vial fin qui, tal, lì per lì, sal nel mio sen, sia quel che sta, sia quel che fu ma non è più, sia quel che c’è col suo can can, che già, pian pian, vo giù (mi par) nel blu del mar com om che muor. Ma se vo giù, per il mio cuor sa pur di miel, nel far glu glu, vie più il gran gel METRICA:
quinari tronchi variamente rimati [N. B. - Nel manoscritto originale i monosillabi sono incolonnati rigo per rigo, uno sotto l'altro. Il ritmo quinario è tuttavia più che evidente. È perciò che si è scelto questo tipo di raggruppamento [su due colonne nel testo originale della plaquette oplepiana, ndr], facendo prevalere, sulle esigenze freddamente filologiche, il calore di una più agevole lettura. Questo procedimento, fra l'altro, ha avuto il merito di mettere in luce l'esistenza di un enjambement tra il 6° e il 7° verso, che, in tutta evidenza, rappresenta un segnale molto significativo di un artificio di cui il poeta farà ampio uso nella stesura finale] TRISILLABI Costante passione cordiale produsse codesta solinga collina foresta. Infatti cortina dorsale modesta, vicina, lontana visione ridesta. Allora, seduto mirando, distesa spaziale dipingo, pensoso; mentale silenzio vistoso sognando; astrale riposo cercando, perduto. Parziale, pertanto, perplesso timore avverto, sbandando. Eppure qualora, calando, folata sonora rumore, frusciando, vapora, allora, lunghesso vagando, ricordo costanti durate, defunto fulgore, stagioni presenti sonore; laddove correnti salate (dimore languenti) leniscon, distanti, dolore. METRICA: quattro strofe di sei senari e quattro ternari: A b C D c D b c / D A c. Dalla seconda strofa in poi la rima C del terzo verso si incatena alla rima b della strofa precedente [N.B. - Questa volta è stato il Leopardi stesso ad accorgersi dei ritmi e delle rime che la poesia gli aveva preso. Difatti, nel brogliaccio originale, la composizione è già strutturata così come viene qui riprodotta] SETTENARI DOPPI (martelliani) Mi furon sempre cari quest'ermo colle e questa siepe che, ostacolando la vista, il guardo arresta al di qua del confine vago dell' orizzonte, sì che né quinci miro il mar né quindi il monte. Ma interminati spazi allora ecco che vedo, da questo monte dove immaginando siedo; e quiete profondissima, silenzio sovrumano, io nel pensier mi fingo spingendomi lontano in luogo ove per poco il cor non si spaura vertiginosamente per l'estensione oscura. E come odo stormire tra queste piante il vento vo comparando a questa voce il silenzio spento: e mi sovvien 1'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva di limitati suoni. Così nell'infinito s'annega il mio pensiero: e il naufragar m'è dolce in questo mare mero. METRICA: 8 distici A A [N.B. - I versi 13 e 14 già si presentano nella veste definitiva. A questo punto il poeta non dovrà fare altro che individuare gli a capo adeguati al ritmo endecasillabico. Arrivato al martelliano, la situazione era dunque più che matura per l'inevitabile meraviglia dell'exploit finale] NOTA
REDAZIONALE Apparso il 30 novembre del 1999 in una plaquette, la
numero 15, della Biblioteca dell’Oplepo, L’infinito
futuro. Sillabe in crescenza di Chiti è un esercizio in cui s’ipotizza un avventuroso
ritrovamento, in uno sgabuzzino murato del Palazzo di Recanati, di quindici
tentativi di Infinito strutturati in
tutte le salse metriche: si va dal balbettio monosillabico alla scandita
ariosità del settenario doppio.
Nell’introduzione all'Infinito futuro viene
riprodotto anche un articolo del Corriere
di Recanati che dà notizia del danneggiamento della cameretta del Poeta,
causa della fortuita scoperta: Il testo permette, scrive Chiti,
finalmente di seguire passo dopo passo il percorso compiuto da Leopardi per
arrivare alla superba versione in endecasillabi che già possediamo. Le versioni
ritrovate (quindici) si presentano in queste vesti metriche: monosillabi, due
versioni in bisillabi, trisillabi, ternari, quaternari, quinari, senari,
settenari, ottonari, novenari, decasillabi, endecasillabi (sonetto caudato),
senari doppi e infine settenari doppi (martelliani). Notevole per l’obbligo all’impegnativa
restrizione la versione monosillabica in quinari tronchi variamente rimati in
cui Chiti riesce, nonostante la concisione, a mantenere mirabilmente il senso
dell’idillio leopardiano. Di due versioni, quella monosillabica e
quella trisillabica, Chiti fornisce (come fa anche in altri testi, si vedano Il centunesimo canto e i Canti di Castellaccio) anche gli
originali scritti di pugno da Leopardi:
In una recensione alla Biblioteca Oplepiana (Zanichelli 2005) Mario
Turello accenna alle «prodezze fantafilologiche di Luca Chiti, che sovverte
l'esegesi dantesca con la “scoperta” del Centunesimo canto della Divina
commedia, composto da versi disseminati nei cento conosciuti, e quella leopardiana
pubblicando i brogliacci di ben quindici versioni – potenziali esperimenti
metrici del recanatese – dell'Infinito, da quella bisillabica a quella
in settenari doppi» (Mario Turello, «La letteratura potenziale della lingua
inventata», Messaggero Veneto, 22 novembre 2005, p. 16). di Carla Marello Mi fu nel cuor /ad or ad or /quel mio
bel col /che sta da sol, / Mi fu sempre caro / restando al riparo / di
siepe modesta / sedere su questa / collina foresta». |