Luca Chiti
E, come l'uom che di trottare è lasso, poi fummo fatti soli procedendo 3 di corno in corno e tra la cima e 'l basso Ci sentivano andar; però, tacendo tra l'altre vidi un'ombra che aspettava; 6 per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo. E videmi e conobbemi e chiamava e cominciò, raggiandomi d'un riso. 9 Pensa, lettor, s'io mi maravigliava […] NOTE 1. trottare: "di solito riferito a cavalli, ma anche a persone per indicare un'andatura rapida" (cfr. G. Siebzehner- Vivanti, Dizionario della Divina Commedia, a cura di M. Messina, Leo S. Olschki, Firenze, 1954). A proposito della scelta di questo vocabolo, l'Ottimo osserva che "in questa parte l'autore metaforizza” volendo esprimere quella che, in senso scolastico, Tommaso d'Aquino definisce, "potenza andativa" (cfr. L'Ottimo commento della Divina Commedia, 1333); interpretazione confermata da Pietro di Dante per il quale la parola "figurat regimen et potentiam" [raffigura la guida e la potenza] (cfr: Petri Allegherii super Dantis ipsius genitoris Comoedium Commentarium, 1340). Curiosa in questa circostanza, da parte del Buti, la citazione (di cui per altro non si coglie bene la funzione) di un adagio popolare: "paura fa vecchia trottare" (cfr. Commento di Francesco Buti sopra la Divina Commedia, 1380 ca.). Fra i moderni il Tommaseo (La Divina commedia con le note di Niccolò Tommaseo, 1865) osserva che il verbo "dice la forma e il ratto moto", mentre il Pietrobono (La Divina Commedia commentata da Luigi Pietrobono, 1923-26) osserva acutamente che, in questo caso, "non lui [Dante] muove i passi, ma i passi portano lui". Interessante anche la notazione estetica del Momigliano (La Divina Commedia commentata da Attilio Momigliano 1945-46) che, pur giudicando "questo canto costruito con unità, ma eseguito con qualche stanchezza", apprezza nel caso specifico "la concretezza dell' espressione per rapire il lettore in una sfera alta e solinga". 2. poi: non è agevole individuare il termine di riferimento di questo avverbio, poiché il canto non si inserisce organicamente a mo' di continuazione di quello precedente. Probabilmente si tratta di una modifica resa necessaria dall'inserimento di questo verso nel corpo della Commedia, che poi è restata anche quando Dante decise di collocare in blocco il Canto subito dopo Inf. XXIX. L'avverbio, comunque, non stona e crea un'armonia che soddisfa l'orecchio del "buono lettore, che, mentre legge l'uno verso, ha l'occhi all'altro che segue" (Cfr. Commento alla Divina Commedia di Anonimo fiorentino del secolo XIV). Il concetto pare corrispondere in qualche misura a ciò che, proprio a proposito di questo passaggio, osservava il Foscolo che della funzione dei passaggi ben s'intendeva: "qui richiedesi semplicità di discorso" (cfr. La Divina Commedia illustrata da Ugo Foscolo e curata da un italiano (G. Mazzini), Londra 1842-43). 3. di corno in corno ecc.: da uno spuntone all'altro del terreno
procedendo in discesa. Il Benvenuto osserva trattarsi di "optima metaphora"
che "figuraliter designatur peregrinatio huius mundi, in quo sumus
exules'' [indica allegoricamente il pellegrinaggio di questo mondo, in cui
siamo esuli] (cfr. Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super D. Alagherii Comoedìam, 1373). 4. ci: sembrerebbe quasi pluralis modestiae, insieme all'uso della la persona plurale di tutti i verbi. Ma l'accenno al maestro mio del v. 18 esclude questa interpretazione. Si può dunque pensare che Dante già avesse immaginato la figura di un accompagnatore (già Virgilio?). - sentivano: è lectio difficilior rispetto alla più comprensibile "ci sentivamo", che apparirebbe, però, troppo caratterizzata da moderna introspezione. "Meglio dunque accogliere (come fa anche il Petrocchi) l'altra lezione, per quanto sospetta, che i codici suggeriscono" (Cfr. Sapegno, La Divina Commedia, 1955, 1968 e 1985). Il soggetto di questo verbo si ricava dal tra l'altre ("idest animas" [cioè le altre anime], Benvenuto) del verso successivo. È il primo dei due soli accenni che si fanno nel canto a una pluralità di anime presenti in quel luogo (l'altro è al v. 67), ma che restano sempre nello sfondo senza essere né descritte né definite. Interessante a questo proposito l'osservazione del Sapegno, il quale, in considerazione del fatto che poi nell'episodio agisce un solo personaggio, crede di poter individuare la ragione della mancata visualizzazione delle altre anime nella volontà del poeta di creare un senso di "misteriosa lontananza"; si tratta di una "interpretazione suggestiva" - aggiunge - "che non può essere esclusa, in un contesto dove tutto il linguaggio è volutamente chiuso e cifrato". Il Benvenuto taglia corto e più semplicemente dice che con questa notazione Dante "describit magnam affectionem, quam ostenderunt spiritus remanentes" [il grande interesse che mostrarono gli spiriti che si trovavano lì]. - però: perciò. 5. aspettava: "un desiderio intenso, e al tempo stesso indeterminato, non circoscritto in un oggetto preciso e preveduto; aspettare di vedere qualche novità" (Sapegno). La parte finale dell'osservazione, esattamente con le stesse parole, anche in Venturi (Cfr. La Divina Commedia commentata da G. A. Venturi, Roma 1924-26). 6. s'i' mi tacea ecc.: "quasi volens dicere tacite: non solum vulgares errant fabulando, sed etiam magni sapientes" [quasi a volere implicitamente dire: quando aprono bocca, a prender cantonate non sono solo le persone qualsiasi, ma anche i grandi saggi] (Benvenuto). Osservazione che, secondo il Tommaseo, Dante farebbe "con la finezza ch'è propria dell'ingegno e degli animi dirittamente severi". Già il Landino, d'altra parte, aveva detto che qui il poeta "dimostra una certa schifezza generosa e senza vizio" (cfr. Comento di Christophoro Landino fiorentino sopra la Comedia di Dante Alighieri, Firenze 1481), e il Foscolo aveva parlato di "sentimento vero, profondo del cuore". - me non riprendo: non ho niente da rimproverarmi. 7. E videmi ecc.: se è vero che il verso, come dice il Benvenuto, comunica "singularem devotionem et dilectionem" [un attaccamento e un ossequio veramente singolari] da parte del personaggio, tanto da giustificare il giudizio sulla "naturalezza, e insieme l'intensità, con cui è ritratto lo stupore dell'incontro inatteso" (Sapegno), qui, assai più che in altri casi, è indispensabile, per chi legge, fare "somma attenzione" (Landino), essendo Gruccio, come nota opportunamente l'Anonimo Fiorentino, simile allo "scorpio, freddo animale di sua natura", la cui "puntura è velenosa e colla punta della coda punge e nuoce alla gente" a tradimento; infatti questo inizio potrebbe far sì "quod non videatur quod expedit videre" [che non si veda, quello che invece è indispensabile vedere] (Pietro di Dante). In realtà qui "tutto è ambiguo" (Cfr. V. Rossi, La Divina Commedia - L' Inferno, Napoli, 1923): giudizio che sintetizza un' interpretazione dell'atteggiamento del personaggio largamente condivisa da "quasi tutti i commentatori prima e dopo di lui. Vedi il "si dee intendere che fingesse"del Buti, il "sotto fraude" del Gelli (cfr. Letture sopra la Commedia di Dante, 1541-1563), il "per la fraude" ancora del Landino; oppure la natura "pervertita dal duplice esser suo" di cui parla il Del Lungo (cfr. La Divina Commedia commentata da Isidoro Del Lungo, Firenze, 1924-26); fino al Momigliano, (secondo cui "questo è anche lo sguardo dell'ipocrita, ed ha un'evidenza da ritratto"), e al Sapegno (per il quale ci troviamo di fronte alla "figura del politico fertile di espedienti ingannevoli"). 8. e cominciò ecc.: "Et hic nota lector, quam pulchros rhytmos poeta noster fabricavit" [e qui nota, lettore, che bei versi ha costruito il nostro poeta!] (Benvenuto). Sul significato da dare in questo punto al verbo "raggiare" il Siebzehner-Vivanti propende per l'accezione "formare come un'emanazione di raggi". L'interpretazione appare persuasiva, poiché indicherebbe una specie di influsso ipnotico perfettamente coerente con la natura del personaggio. 9. lettor: con questo richiamo "pare che Dante abbia voluto in certo modo rendere più agevole alla fantasia dei lettori il miracolo [dell'incontro] avvicinando il più possibile i tempi del dialogo, come a tentar di comprimere in una sola scena gli atteggiamenti delle battute che si incalzano" (Momigliano). […] FONTE DI RIFERIMENTO Accanto a ciascun verso del "Gruccia" [Gruccio de’ Bardonecchi, protagonista de Il centunesimo canto, ndr], è indicata la fonte di riferimento nei vari canti del poema. Per i versi 23 e 24 si specifica anche il tipo di variatio intervenuta. [N.B. - Si è usata una certa libertà sul piano dell'interpunzione e degli altri segni diacritici che, d'altronde, ai tempi di Dante non erano quelli che si usano oggi] E, come l'uom che di trottare è lasso, Purgo 24, 70 poi fummo fatti soli procedendo Purgo 14, 130 di corno in corno e tra la cima e 'l basso. Par. 14, 109 Ci sentivano andar; però, tacendo Purgo 14, 128 tra l'altre vidi un'ombra ch'aspettava; Purgo 13, 100 per che, s'i' mi tacea, me non riprendo. Par. 4, 7 E videmi e conobbemi e chiamava Purgo 11, 76 e cominciò, raggiandomi d'un riso. Par. 7, 17 Pensa, lettor, s'io mi maravigliava Purgo 31, 124 […] NOTA REDAZIONALE Con Il centunesimo canto di Chiti, uscito il 21 marzo del 2001 nella plaquette n. 18 della Biblioteca Oplepiana, si raggiunge la vetta più «magistrale» (così si esprime Monica Longobardi nel paragrafo che gli dedica nel suo libro Vanvere, 2011) del centone, composizione formata da brani di autori diversi o da testi diversi di uno stesso autore. Quello creato da Chiti è straordinario, «un'acrobazia da applauso» scrive Giampaolo Dossena in una recensione sul «Ventiquattro» il Magazine del Sole 24 ore, 12, 2001 (si veda anche, sempre su Il centunesimo canto chitiano, la recensione di Odifreddi su la Repubblica del 21 luglio 2013). Si tratta di 151 versi di Dante scelti sapientemente, rispettando il concatenamento delle rime nelle terzine, all’interno della Commedia fino a dar vita a una nuova storia, quella di un certo Gruccio de’ Bardonecchi, «esperto e astutissimo alchimista» fiorentino. Sbalordisce ne Il centunesimo canto l’ampiezza e la profonda meticolosità filologica delle note poste a commento dei «nuovi» versi danteschi, di cui qui si è potuto offrire solo un piccolissimo esempio, in un’impaginazione diversa da quella predisposta nella plaquette oplepiana. Il testo è corredato da tre appendici: la prima riguarda le corrispondenze, cioè le fonti di riferimento nei vari canti del poema; la seconda si occupa di «Le invettive e gli sfoghi» contenuti nella Commedia (contro i simoniaci, l’Italia, i Guelfi e i Ghibellini, ecc.) e la terza infine è relativa alle «Notizie su Gruccio de’ Bardonecchi». Il centunesimo canto si apre con una spiegazione sulle fortunose circostanze che hanno portato alla scoperta dello sconosciuto canto dantesco. Tutto ha inizio verso la metà degli anni cinquanta, a Lucca, quando in una pausa di studio, mentre sta facendo merenda, tal Giovanni Ciancaglini, allora studente del liceo classico Macchiavelli, oggi affermato ingegnere, getta lo sguardo sul testo aperto dell’Inferno dantesco e vede con la coda dell’occhio «una specie di strisciolina di nebbiosa grumosità proprio nello spazio bianco tra il ventinovesimo e il trentesimo canto del poema»; ingrandita la macchiolina, prima con la lente che gli serve per la collezione di francobolli, poi con l’armamentario usato per sviluppare i negativi delle fotografie, Ciancaglini ottiene un primo risultato: dopo un ulteriore ingrandimento la macchiolina si presenta così: fino a quando, dopo successive prove
d’ingrandimento, non compare, bello nitido, il testo de Il centunesimo canto.
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