pagina del sito di Tèchne di Paolo Albani

Luca Chiti

DECONTESTUALIZZAZIONE SINONIMICA

 

 

L'INFINITO

 

 

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

e questa siepe che da tanta parte

dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo; ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Così tra questa

immensità s'annega il pensier mio:

e il naufragar m'è dolce in questo mare.

 

Nel primo caso ho sostituito con sinonimi parola a parola con accezioni di significato diverse (non coerenti, perciò, col contesto originale) tutto il sostituibile, lasciando intatti i nessi connettivi e i dimostrativi. Ho mantenuto intatto l'ordine delle parole dell'originale. Confesso però che il risultato non mi pare un granché.

Nel secondo caso ho sostituito tutto (tranne evidentemente gli articoli, ma ho usato quelli che ci volevano non tenendo conto del modello) con espressioni perifrastiche sinonimiche, sempre «decontestualizzate», riordinando i giri di frase in modo da facilitare la leggibilità. Mi sembra un risultato più efficace e divertente.

 

 

DECONTESTUALIZZAZIONE SINONIMICA

 

Eternamente mi fu costoso questo scompagnato valico

e questa calca che da tanta percentuale

del finale target la sbirciata esonera.

Ma accomodandomi e puntando, inconclusi

interstizi di là da quella, e divine

ritirate, e acutissima stabilità

io nella dottrina mi dipingo, ove per poco

il coraggio non si sconforta. E come il peto [la flatulenza]

sento rumoreggiar tra questi piedi, io quella

innumerevole taciturnità a questo lemma

vo collazionando e mi soccorre Dio

e gli inerti climi e il corrente

e rigoglioso, e il fonema di lui. Così tra questa

enormità è soppressa la dottrina mia:

e fallire mi è dessert in questi pelaghi

 

 

DECONTESTUALIZZAZIONE SINONIMICA PERIFRASTICA

 

Per un tempo che non finisce mai a me costarono un occhio della testa il passo montano qui vicino che rifugge da ogni compagnia, e - anch'essa qui accanto a me -la barriera ostacolante di persone la quale, di una così numerosa fazione politica, chiude fuori la pittoresca e complessiva visione della più esclusiva e suprema aspirazione.

Ma occupando il seggio e puntando verso il bersaglio, passato oltre quella là, io ritraggo a pennello nel mio sistema filosofico intervalli bianchi non ancora completati fra parola e parola, e segnali serali di tromba militare potenti oltre ogni umana possibilità, e un acutissimamente studiato atteggiamento di immobilità, in un luogo nel quale manca un nonnulla perché il dato essenziale del problema non arrivi a provare un intenso turbamento, reale o immaginario che sia, per qualcosa che gli sembra capace di produrre gravi danni.

E nel momento in cui mi giunge voce che l'emissione di gas intestinali produce un lieve fruscio fra le parti inferiori del piede qui vicino a me, io mi metto a confrontare filologicamennte l'assolutamente immenso segnale serale di tromba militare lontano da me all'esponente lessicale che mi sta vicino: e allora accorrono in mio aiuto l'Ente Supremo, le condizioni climatiche fra equinozi e solstizi passate a miglior vita e quelle attualmente in corso, vivaci e piene di salute, e l'esecuzione strumentale che le caratterizza.

In questo modo e in mezzo alla quantità iperbolica che ho qui presso, muore per presenza di liquido salato nei polmoni il mio sistema filosofico: e andare distrutto per avaria in questa vasta zona pianeggiante della luna diviene per me una squisita portata solitamente servita a fine pranzo prima del caffè.

 


NOTA REDAZIONALE

 

Non sono riuscito a stabilire in che periodo esatto Chiti m’inviò questo suo esercizio di «decontestualizzazione sinonimica». Nella lettera che pubblico di seguito e dalla mia risposta ne deduco che siamo prima del 1999, anno in cui esce la plaquette n. 15 della Biblioteca Oplepiana intitolata L’infinito futuro. Sillabe in crescenza dove Chiti riporta quindici riscritture dell’Infinito leopardiano.

 

Caro Paolo,

poiché è sabato e ho finalmente un po' di tempo libero e tranquillo (i figli sono per il mondo, la moglie è a Ferrara per una mostra), provo a chiarirti il mio punto di vista a proposito del punto 2 della tua lettera (si dovrebbe dire la mail, ma mi pare troppo fico) del 27 settembre sul problema del "procedimento che sorregge" l'operazione Infinito.

La base è certamente e ovviamente quella che tu hai colta: "riscrivere un testo esistente ecc." Ma va precisato che non si tratta di un'operazione, per così dire, automatica, nel senso che le riscritture non sono effetto univoco e necessario di una causa; ognuno potrebbe trovare infinite soluzioni usando la stessa scelta metrica: ci possono insomma essere infiniti Infiniti in ottonari, decasillabi, senari ecc. Dipende da chi scrive. Purché la metrica sia definita in anticipo, e non faccia sbavature e purché - soprattutto - si cerchi di riproporre il nucleo di pensiero e di espressività che sottende all'originale in tutte le sue pieghe possibili. Il che presuppone una conoscenza analitica e globale molto approfondita del testo specifico sia sul piano della forma che su quello dei contenuti e una conoscenza altrettanto precisa di tutti gli elementi di contesto, insomma dell'autore nel suo complesso.

Si tratta - certo - di divertissements (che divertono innanzitutto chi scrive). Però alla fine del lavoro ci si rende anche conto che non sono fine a se stessi, che il gioco non si esaurisce nel gioco. Che è un mezzo non un fine. Cerco di spiegarmi comunicandoti le mie sensazioni durante e dopo il lavoro. Non per dar loro importanza particolare e generalizzabile, ma perché così è stato e - proprio secondo una utilissima lezione leopardiana - è spesso fondamentale partire da se stessi (è anche la lezione fondamentale per tutti del femminismo più serio - almeno per quanto mi è dato di capire). Si tratta di due aspetti ambedue di grande ed intima soddisfazione:

            - il primo consiste nell'aver meglio compreso, anzi inteso il testo originale e quindi di averne goduto ancora di più le sensazioni. Si tratta di una soddisfazione sul piano della ragione ed ho l'impressione che questa soddisfazione riguardi tutte le opere degne, le cui implicazioni paiono senza fine. C'è sempre - anche quando credi di averle esaurite - un + l ;

            - il secondo aspetto è in qualche modo la conseguenza su un piano non solo razionale del primo, quando cioè quella comprensione e quelle ulteriori sensazioni si traducono in parole scritte nuove che esprimono non solo il pensiero dell'originale ma anche qualcosa che comunica ciò che «ditta dentro» il me che scrive. Si passa, cioè, su un piano creativo di cui il gioco linguistico delle parole e dei ritmi della ferrea regola metrica diventa uno strumento funzionale ad esprimere l'altro e te stesso (tanto più quanto più vieni legato e obbligato da quelle regole).

Si tratta, come vedi, di qualcosa che è qualitativamente abbastanza diverso dal gioco per così dire enigmistico fine a se stesso. Ne accennammo a Firenze. Che poi non sarebbe neanche particolarmente difficile a volerlo fare; purché ci si contenti o, meglio, ci si realizzi in esso. Il che è degnissima cosa. Tanto per dire: io e mia moglie siamo dei discreti enigmisti, al punto che il giovedì abbiamo un ferreo appuntamento comune con la Settimana Enigmistica, ed è triste se i nostri impegni qualche volta ce lo impediscono.

Anche il gioco delle finzioni letterarie non è fine a se stesso. E devo dire che esso mi diverte a tal punto che corro proprio questo rischio. E qui allora - giocando - ti do più ampia e articolata ragione della SPA.

Sono andato a vedere nella LIZ col computer il corpus leopardiano. Per mia sfortuna la sequenza isolata S P A non compare. Ho trovato uno SPAX a proposito di un'osservazione filo logica dello Zibaldone, ma evidentemente non fa proprio al caso mio. Allora la spiegazione va trovata in altra direzione (che alla fine non mi sembra neppure del tutto inutile nello scherzo dell'evidente falsità, perché un'eventuale intervento critico virtuale in questo senso mette pur sempre in evidenza un aspetto del Leopardi che, almeno al livello della diffusione scolastica dell'autore, non viene quasi mai messo nella dovuta luce.

Dunque (tono entusiasta del critico parruccone): potenza miracolosa dell'arte! Nel fuoco dell'ispirazione il Poeta ha previsto, anzi ha addirittura avuto la visione precognitiva della Soc. per Az.! Altro che il nebuloso veggente rimbaudiano! Vuoi mettere con la nettezza cristallina della SPA?

Assurdo, nevvero? Eppure questo quadro di virtualità critica ha un appiglio proprio nel Leopardi: quello della «Palinodia» al Capponi. Tutta, ma in particolare la quarta strofa dove (pensa un po' quanto si può interpretare) il buon Giacomo prefigura addirittura quella che noi chiamiamo la società dei consumi, addirittura quella del design:

 

            Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri

            certamente a veder, tappeti e colti,

            seggiole, canapè, sgabelli e mense,

            letti, ed ogni altro arnese, adorneranno

            di lor menstrua beltà gli appartamenti,

            e nove forme di paioli, e nove

            pentole ammirerà l'arsa cucina

 

Da questa visione di futuro così esatta e «sensibile» alla previsione delle SPA (in un ipotetico scartafaccio di prove di scrittura poi rifiutate) il passo è proprio troppo lungo e impossibile? Vedi quante cose si possono sostenere se, attraverso la virtualità, ci si vuole divertire? Ma - ripeto - è un divertimento sempre di qualche utilità, non foss'altro per chi se lo inventa.

È anche questo un modo, non proprio banale, di avvertire meno la noia del comune grigiore quotidiano. Il ministro Berlinguer... Credo che il Leopardi sarebbe stato d'accordo.

Mi rendo conto di aver chiacchierato troppo. Ma ormai è fatta e non torno indietro. Non oso sperare (anzi invece oso, oso) di ricevere un tuo parere su questi pensieri vagabondi. Un carissimo saluto.

                                                                                                                                 Luca

 

 

Caro Luca,

ho apprezzato le tue «decontestualizzazioni sinonimiche» (con correzione ultima) [accenno alla sostituzione della parola «peto» con «flatulenza», ndr]. Il procedimento (in particolare il secondo) ricorda l'esercizio di LETTERATURA DEFINIZIONALE dell'Oulipo francese, dove ad ogni singola parola di un testo di partenza viene sostituita la propria definizione, in una progressione volendo estendibile all'infinito.

Se sei d'accordo potrei pubblicare questo tuo esercizio sul numero 10 di Tèchne, in uscita per il 2000. Fammi sapere [in realtà sul n. 9/10/11 del 2001 della rivista uscì un’anticipazione di un altro testo di Chiti: I Paraparalipoemi, ndr].

A proposito del primo esercizio - le RIELABORAZIONI LEOPARDIANE [si tratta dell’esercizio che apparirà nella plaquette n. 15 della Biblioteca Oplepiana del 1999 con il titolo L’infinito futuro. Sillabe in crescenza, ndr] - bisognerebbe trovare un nome alla tua struttura, al tuo procedimento di riscrivere un testo esistente passando attraverso dei «componimenti poetici obbligati». Ogni plaquette oplepiana ha generalmente un sottotitolo che è il nome della struttura (anagrafie, lettere rubate; l'alfabeto raffigurato; rimbalzo statistico; ecc.). Le RIELABORAZIONI LEOPARDIANE va bene come titolo della concreta realizzazione, della particolare (diciamo così) «messa in scena» di una struttura più generale, applicabile ad altri testi (da qui il suo valore potenziale). Hai in mente qualcosa? [la plaquette con le rielaborazioni leopardiane di Chiti, la n. 15 della Biblioteca Oplepiana uscita nel 1999, si chiamerà Sillabe in crescenza. L’infinito futuro, ndr].

A presto

                                                                                                          Paolo


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Luca Chiti

MONORIME MONOLEMMATICHE (MONOVERBALI?)

(da Pascoli)

 

I

Più sempre avanti sospingea la nave,

più sempre avanti sospingea la nave,

più sempre avanti sospingea la nave,

più sempre avanti sospingea la nave

e tra i due scogli si spezzò la nave.

 

 

II

E la corrente rapida e soave,

e la corrente rapida e soave,

e la corrente rapida e soave,

e la corrente rapida e soave

ch'entra soave...

 

 

III

E due tre volte la tuffò nel Lete;

e le diceva: «Vieni al dolce Lete»

E docile beveva ella, e nel Lete

su via per le tranquille acque di Lete.

 

 

IV

«Chiù...»,

le rispondeva di lontano il chiù.

«Chiù...»,

le rispondeva di lontano il chiù.

Chiù...»

Perché giù cantava il chiù...

 

 

V

Virb... disse una rondine; e fu

com'eco d'un grido che fu.

E il canto suo già mio singulto fu:

spento dolore o gioia che non fu,

col cuore assorto nell'amor che fu;

rimpianto mai di quel ch'un giorno fu...

e sarà, tutto, ciò che ancor non fu.

Pensa al gran tempo che fu:

bene che nasce, male che fu

del novembre che fu.

Risarà tutto quello che fu.

È lui... N'è tutto nero... Chi fu?

Zul-Karnein è sempre ciò che fu

più del tempo... del tempo che fu...

Dolore che fu

dal tempo che fu.

 

 

VI

mai più! mai più! mai più! mai più!

mai più! mai più! mai più! mai più!

mai più… mai più...

mai più… mai più...

mai più… mai più...

mai più… mai più...

mai più… mai più...

mai più… mai più...

mai più… mai più...

mai più… mai più.

Mai più! Mai più!

Mai più?

 

 

VII

L'ombra dei monti, ella si leva su.

D'oltre la nebbia: di più su, più su,

montavi lentamente su.

Ma, per risalire più su,

sette Pleiadi un poco più su,

tient'a su! tient'a su! tient'a su!

tient'a su! tient'a su! tient'a su!

tient'a su! tient'a su! tient'a su!

tient'a su! tient'a su! tient'a su!

tient'a su! tient'a su! tient'a su!

tient'a su! tient'a su! tient'a su!

tient'a su! tient'a su! tient'a su!

tient'a su! tient'a su! tient'a su!

 

 

VII

Chi viene? sei tu?

Sei tu... ?

Tu? tu? ma dunque tu non sei tu...

Dimmelotu!

tu!

pur tu!

 

 

VIII

Chi è?

Dov'è!

Ov'è? ov'è?

Ov'è? ov'è?

ch'ora ora ora non c'è...

Victor Hugo dov'è?

 

 

IX

I Caserecci gridano: c'è, c'è...

sicceccè… sicceccè…

sicceccè… sicceccè…

sicceccè… sicceccè…

sicceccè… sicceccè…

 

 

X

Bianche ai dirupi pendono le capre

nel taciturno colle delle capre!

A monte, a valle, belano capre,

e tante più dal Nerito le capre,

che verri impingua, negli stabbi, e capre.

«Compagni, udite. Qui non son che capre;

e con indosso pelli irte di capre».

 

 

XI

E un'altra, ed un'altra. - Non essa.

Noi s'era in otto, nove con essa.

Per vivere un poco ancor essa,

campa su la macchia anch'essa.

 

 

XII

E della moglie e de' suoi nati è re.

Vita da re…!

Vita da re…!

Vita da re…!

Vita da re…!

Vita da re…!

 

 

XIII

E il fulgido Odisseo dava la vela,

la testa bianca come bianca vela;

e con drizze di cuoio alzò la vela.

Or col remeggio or con la bianca vela

tre quattro strappi fece nella vela.

E il Laertiade ammainò la vela.

 

 

XIV

Siede cruccioso Buoso da Dovara.

Dice Innocenzio: «Buoso da Dovara»

Tentenna il capo Buoso da Dovara:

Sognava Buoso d'essere a Dovara.

 

 

XV

Morto? Ma forse l'Italia,

poi ch'egli cadde già per l'Italia,

l'ultimo Grande d'Italia,

l'ultimo Grande d'Italia,

tu, Re, salutavi l'Italia.

Ti dedicò, per questa grande Italia,

l'inno di gloria che beò l'Italia.

per afferrarlo, questo nome: Italia!

Dove?... Sull'Alpi d'Italia!

Dove?... Sui mari d'Italia!

Dove?... Nel cielo d'Italia!

S'udì gridare: Italia! Italia! Italia!

Gridaron tutti: Italia! Italia! Italia!

Italia! Italia! Italia!

Dal cielo azzurro grida Italia! Italia!

insino al cielo, il Termine d'Italia;

E voi cantate - ché la madre Italia

dal solco fondo germinò l'Italia.

Cantate dunque: Italia! Italia! Italia!

L'Italia, l'Italia!,

Fratelli d'Italia!

Fratelli d'Italia,

l'Italia re dominerà. L'Italia.

 

 

 

 

NOTA REDAZIONALE

 

Queste monorime pascoliane, un piccolo scherzo non datato, sono il frutto del lavoro condotto da Chiti sulle rime del Pascoli che ha portato lo scrittore livornese ha creare un gigantesco «rimario pascoliano», intitolato Pascolando. I versi ripetuti sono rigorosamente documentati da Chiti. Prendiamo ad esempio il verso: «tient'a su! tient'a su! tient'a su!» che nella monorima VII viene ripetuto otto volte; ciò consegue dal fatto che nella poesia «La partenza del boscaiolo», quello stesso verso è ripetuto otto volte da Pascoli che in una lettera all’amico Mario Novaro del febbraio 1904 precisa: «il ritornello è del popolo, non mio» (cfr. Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, Rizzoli, Milano, 1989, pp. 69-74.

 


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