Luca Chiti I PARAPARALIPOMENI (OVVERO I
PARALIPOMENI DEI PARALIPOMENI
Cosa importa – disse il derviscio – che ci sia male o bene? Quando Sua Altezza manda un vascello in Egitto, si preoccupa forse che i topi della stiva stiano o no a loro agio? (Voltaire, Candide, ou l’optimisme) INTRODUZIONE Da piccoli fatti nascono grandi eventi (1) o, almeno, garbugli inestricabili di complicazioni.
È il caso di questa ulteriore puntata della storia, come dimostra la terza parte del manoscritto testé venuta
alla luce (2). Ammesso - naturalmente - che la morte per annegamento di un topo sia da considerare un piccolo accidente. In fondo si trattava pur sempre del figlio di un nipote di re, e nella vicenda ebbe parte decisiva il principe dei Ranocchi. Accadde a Rubabriciole - come
racconta Omero o chi per lui - che, invitato da Gonfiagote alla sua reggia nel mezzo del pantano e salitogli
sulle
spalle per la traversata, perì miseramente nello stagno appena il nobile ranocchio
si inabissò per sfuggire a una serpe acquaiola comparsa all'improvviso. Qui sta il primo punto. Fu come se, in quel momento, fosse venuto meno un
tassello dell'ordinato
equilibrio dell'universo mondo e si fosse data la stura ad un processo inarrestabile di
vertiginosa entropia. Niente di strano - intendiamoci: è solo il naturale procedere delle cose. Fa un certo effetto, però. La disperazione del vecchio Rodipane
- il padre di Rubabriciole -, la chiamata alle armi del popolo dei Topi per vendicare l'affronto di quella morte, la
solenne sfida di Montapignatte al popolo dei Ranocchi, la violentissima, sanguinosa, confusa e generale baruffa dei
contendenti: effettivamente
il corso degli avvenimenti supera ogni ragionevole limite. Persino gli Dei - contravvenendo a un'abitudine costante - si rifiutano di
partecipare
a una zuffa in cui la gente è così stizzita e calda da perdere ogni religioso rispetto. E c'è poco da fare: neppure il fulmine di Giove riesce
ad ottenere più di un breve attimo di disorientamento nel cuore di Rubatocchi, il feroce campione
dei Topi, che senza legge né freno
rischia di cancellare dalla faccia della terra la stirpe intera delle rane. E siamo al secondo punto. Perché è del tutto evidente che una tale
eventualità infrangerebbe l'equilibrio universale. È necessario, perciò, introdurre un
elemento che ristabilisca l'ordine ed inverta il
processo di entropia. Per questo Giove fa scendere in battaglia lo scontraffatto stuolo dei Granchi che,
abbrancando, tagliando, stracciando, calpestando, fanno tal macello dei Topi che costoro -
tramontando ormai il sole sulla terribile giornata - abbandonano il campo e si ritraggono afflitti e muti. Ma quanto sforzo per mantenere le
cose ordinate! che sperpero di potenza in un universo - si dice - gran risparmiatore di energia, che
scivola, scivola
seguendo sempre
le linee di minore
resistenza! Eppoi - si sa - per forza non si fa
neppure l'aceto. Perciò, anche se la fine della prima parte del
manoscritto potrebbe sembrare una conclusione, ognun vede che invece la vicenda resta in bilico, in stato di naturale precarietà. Si deve a Giacomo Leopardi la
scoperta e la traduzione del seguito degli eventi. E si tratta - credo - di una traduzione molto fedele all'antico testo; almeno a giudicare dai primi cinque canti
della continuazione, dove sembra che la materia stessa si ribelli alle costrizioni di un andamento lineare, a tal punto che la struttura delle frasi diviene spesso involuta fino all'anacoluto, la consequenzialità delle argomentazioni logiche non si armonizza sempre col ritmo dell'ottava, i fatti sono inframmezzati da digressioni spropositate. È
come se, anche sul piano formale, ci si trovasse di fronte a una ribellione nei confronti
di un ordine imposto forzatamente ad una natura di per sé caotica che, insofferente di legami, preme e scappa via da tutte le parti. Ma la conferma del significato fondo dell'opera non è soltanto indiretta. Appare francamente miracoloso
trovarsi, a un certo punto della narrazione, di fronte alla testimonianza inoppugnabile di quanto l'antichissimo scrittore (3) avesse già allora chiarissima coscienza della questione. Sono le parole che mette in bocca al più rozzo e ottuso dei personaggi, il
granchiesco generale Brancaforte: si deve pensare - egli dice - che questo mondo rassomigli a un bilancione, fatto di tanti gusci più o meno grandi e rispondenti fra loro; i granchi sono intervenuti negli avvenimenti proprio per mantenere questo universale
marchingegno in equilibrio. Si può essere - dico - più chiari di così? Ma intanto la storia, sia pure a pezzi e a bocconi, va avanti: la fuga dei Topi, il loro
rifugiarsi nella sotterranea e oscura città di Topaia, l'elezione popolare di Rodipane, re costituzionale al posto del defunto Mangiaprosciutti, l'incarico al probo e colto conte Leccafondi di andare a parlamentare con i vincitori, l'imposizione di una guarnigione di Granchi
da alloggiare nella cittadella di Topaia, la nomina a ministro e consigliere del re dello stesso Leccafondi, la sua politica culturale ed economica - come si direbbe oggi -
illuminata, la soluzione costituzionale non gradita a Senzacapo il re dei Granchi, il tentativo di resistenza all'esercito delle bestiacce da parte dei Topi, miseramente
fallito per l'improvviso panico generale che li prende alla sola vista da lontano delle schiere nemiche, l'eroica morte in battaglia di Rubatocchi. E poi
l'imposizione a Topaia dell'inviato Camminatorto granchio che obbliga alla legge dei vincitori, i ridicoli e superficiali tentativi dei giovani topi di resistere organizzandosi in società segrete. Infine la cacciata del povero Leccafondi. È l'onesto
conte il protagonista degli ultimi tre canti i quali, narrando una vicenda di per sé meno costretta e più disordinata, come si addice al destino di un errante esiliato, trovano anche nello stile e nella sonorità della metrica maggiore agio e scioltezza e - per così dire - efficaci e frequenti momenti di coinvolgente ed espansa narratività. È,
quella del conte, una vana ricerca di aiuti esterni per la causa di Topaia oppressa che si conclude con un gran temporale e col povero topo mézzo e infreddolito che bussa a notte fonda alla porta
del palazzo di Dedalo, strano e originale personaggio umano (4). Costui, dopo aver accolto e rifocillato il topolino, ascoltatine i problemi, gli consiglia di ricercare la soluzione consultando nell'aldilà le anime degli eroici antenati del
popolo dei Topi. Inizia così il volante viaggio dei due personaggi che, varcate terre e mari primigeni, giungono finalmente a un'isola che, solitaria, si eleva a picco in mezzo all'oceano, costantemente avvolta nell'oscurità di una nebbia perenne: è l'Averno dei bruti, verso cui convergono senza interruzione, da tutte le direzioni, le anime mute di tutti gli animali che muoiono, rasentando le onde. Ed eccole le larve dei trapassati topi: sedute nelle viscere del monte, tutte in fila su uguali sedili di pietra, fisse e indifferenti, ciascuna con le mani appoggiate a un bastoncello, le facce allungate e sonnolente. Insomma sono la rappresentazione sensibile dello stato di entropia, che è poi semplicemente un modo solo un po' più complicato e filosofico per dire morte. Ed anche più scaramantico. Stonano su questo sfondo le domande del conte e provocano una stridente e cigolante e impossibile risata dei morti che si diffonde e riecheggia per le profonde volte dei sotterranei corridoi. Ma alla fine un consiglio pur viene da quelle ombre: si rivolga Leccafondi all'ormai vecchio e glorioso Assaggiatore, che vive solitario e sdegnoso in una povera casa di Topaia. Da lui ascolti le risposte. Allora, mascherato da granchio, Leccafondi rientra nella sua città; ma quando Assaggiatore sta per cominciare la risposta, il manoscritto si interrompe e il lettore resta ancora una volta con un palmo di naso. Quella che segue è, dopo quella del Leopardi, la ulteriore continuazione della storia, tratta da un antico codice venuto alla luce a centocinquanta anni di distanza. Di essa si fornisce qui una traduzione il più possibile fedele, rispettosa dei toni e dei contenuti del testo originale (5). NOTE ALL’INTRODUZIONE (1) Senza stare a scomodare il clinamen di ascendenza epicurea e lucreziana per giustificare una affermazione di tale condivisa e generale evidenza, si preferisce qui rimandare a lettura più facile ed agevole - ma non per questo meno istruttiva e chiarificatrice. Si confronti, pertanto, C. BARKS, A Christmas for Shacktown, in «Donald Duck Four Color», 367, Jan.-Feb. 1952 (trad. il. Paperino e il ventino fatale). Ma forse basta il noto proverbio secondo cui «per un punto Martin perse la cappa». (2) La prima, come è noto, è la Βατραχομυομαχα
di epoca alessandrina: la seconda sono i Paralipomeni della Batracomiomachia, poemetto in ottave di G. Leopardi
composto tra il 1811 e il 1817. (3) Intendo dire già l'anonimo autore del manoscritto, non il Leopardi, naturalmente. (4) Con un dotto e persuasivo intervento, inserito direttamente nel testo, il Leopardi dimostra. filologicamente, non trattarsi del noto Dedalo legato al mito di Creta e al tragico incidente di volo del di lui figlio. Si tratta invece di un omonimo vissuto in epoca di molti anni o secoli antecedente. (5) Nota: alcuni critici e studiosi di questa materia, ritengono che di tutta la vicenda si debba privilegiare una interpretazione - a dir così - «politica», invece che «filosofica». Su questo argomento il curatore e traduttore della presente edizione non intende esprimere alcun giudizio. CANTO III Benché il curatore e traduttore di questi Paraparalipomeni propenda più per una interpretazione «filosofica» dell’opera che si presenta come la continuazione dei Paralipomeni leopardiani, egli non può tuttavia sorvolare sulla curiosa circostanza che coloro che sin qui l’hanno letta ne abbiano ricavato invece una idea prevalentemente «politica», individuando nei fatti e nei personaggi significativi aspetti che rimanderebbero a vicende e protagonisti della recente storia italiana e non solo. A lui pare un evidente anacronismo data l’antichità del malandato codice che la contiene. E tuttavia è difficile negare che, dietro a figure, razze o luoghi come Degranchitopo, Rodiriso, il pipistrello, il Buco oscuro e via dicendo (solo per restare al terzo dei trentanove canti più un frammento del quarantesimo che compongono il poemetto) si abbia incredibilmente l’impressione di scorgere nelle linee generali, e spesso anche nei particolari, elementi a conferma della impossibile tesi politica. Misteri dell’arte. Certamente del tutto immaginarie appaiono invece le figure, già presenti in Leopardi, di Assaggiatore e del suo ospite, il probo Conte Leccafondi, che lo sta ad ascoltare mentre quello gli racconta gli avvenimenti che si sono verificati a Topaia durante il lungo periodo del suo esilio. Anche il mite Stecchetto, che non è presente nel Leopardi, parrebbe appartenere alla medesima categoria. L’episodio che segue si colloca dopo che in Topaia è stata celebrata la Liberazione dall’oppressione dei Granchi di Camminatorto e dopo che, proprio in occasione della prima riunione del parlamento, si è determinata una imprevista e radicale frattura fra la fazione di Degranchitopo e quella di Rodiriso, che pure nella gioia del glorioso momento avevano sfilato insieme fra due ali di popolo, uniti e solidali nel comune ideale di libertà. Assaggiatore cerca di individuarne fatti e circostanze capaci di dare ragione dell’accaduto. I Dice nel terzo canto il vecchio testo che aprì uno sportellino Assaggiatore e poi dalla bottiglia con bel gesto versò due bicchierini di liquore; infine ritornato lesto lesto, porgendone uno al conte ascoltatore, si sedette di nuovo e, più disteso, narrò questa vicenda per esteso: II «Di ciò che vi dirò testimonianza certa di topi esiste ed attendibile, anche se può tutta la circostanza sembrare di per sé poco credibile». Ed, esitando un po', fissò la stanza come vedesse un'ombra non visibile; ma poi posò per terra il bicchierino e proseguì così, col capo chino: III «Un dì Degranchitopo, uscito presto, fu visto per i vicoli più scuri furtivo zampettare lesto lesto, imbacuccato e rasentando i muri in un atteggiamento poco onesto, e accompagnato da quattro figuri che, avvolti fino al muso in un mantello, lo portarono dritto in un bordello. IV Forse credeva, il topo, di potere passare di straforo e inosservato o, male che gli andasse, che il sapere che entrava in tale albergo malfamato, regno della lussuria e del piacere, avrebbe poco scandalo destato, poiché non è di legno un onorevole e - come ben si sa - la carne è debole. V Invece non pensò, probabilmente, che in luogo come quello, aperto a tutti e sempre frequentato fittamente da topi onesti e topi farabutti, ogni cosa si sa immediatamente di quello che vi accade e dei suoi frutti; e che stranezze di comportamento sono viste e annotate in un momento. VI Insomma, ad un topetto intrattenuto, una topetta che lo intratteneva disse di avere dabbasso veduto entrare nel salone uno che aveva simile in tutto il muso all'occhialuto Degranchitopo quando lo sporgeva; e che, passando alle topane in mezzo rigido quanto mai e tutto di un pezzo, VII vano era stato fargli le moine sdraiate in positure provocanti sopra i cuscini di tessuto fine; vano agitare code indietro e avanti scoprendo certe parti sopraffine; vano guardarlo dolci e conturbanti; e vani anche gli inviti della grassa topessa tenutaria che era a cassa. VIII Era passato dritto come un fuso scortato da quei quattro col mantello e, senza mai voltare ai lati il muso, nella stanzina al fondo del bordello silenzïosamente si era chiuso. Poi, dopo un po', era giunto un pipistrello con un berretto in testa tutto bianco ed un pendaglio d'oro lungo il fianco. IX Costui, con gli occhi bassi e dentro le ali che tutto lo avvolgevano ampiamente, a passettini poco naturali e fitti fitti, fendendo la gente con sospiretti un po' spirituali, si era diretto assai velocemente verso la porta dello stambugetto, scivolandovi poi come un furetto. X "Ed ora giù", concluse la topina, "soltanto i quattro ceffi son restati che, sugli attenti, a quella porticina fanno la guardia al modo dei soldati, mandando via chiunque si avvicina coi loro lunghi artigli sfoderati". Il topo, allora, che era lì a godere, ebbe un sussulto e si levò a sedere. XI E fece tutto a un tratto più attenzione a certi rantoletti sospiranti, a certi gridi e all'affabulazione confusa che dal basso in anfananti suoni veniva su da due persone certo impegnate in giochi stuzzicanti. Scese, infine, dal letto e al pavimento pose l'orecchio ad ascoltare intento. XII Sentì che erano voci un poco grosse quelle gli giungevano dal palco, grufolanti, svenevoli e commosse ed accordate al fine di ogni assalto che procedeva con ritmate scosse; né toni di soprano o di contralto il topo udì; ma piuttosto di basso salivano squittii dal materasso. XIII Allora si fiondò giù per le scale tenendo conto dell'orientamento, curioso di conoscere se il tale che era venuto a quell'appuntamento con un compagno poco abituale, stesse là proprio sotto il pavimento della stanzetta al piano superiore dove egli stava lieto a far l'amore. XIV Gli parve, quando giunse al pianterreno, che fosse confermato il suo sospetto; che fosse certo ormai - nientedimeno! - che quel Degranchitopo stava a letto con un pipistrellaccio in atto osceno, di quelli a capo in giù sospesi al tetto; che aveva disdegnato, quel vizioso, l'oggetto natural di ogni amoroso. XV Sortì il topetto dopo aver pagato, e per la strada a ognuno che incontrava narrava quello che era capitato là nel bordello dove si trovava il pio Degranchitopo depravato; ma, soprattutto, lesto galoppava per dare la notizia sconvolgente a Rodiriso ed alla sua corrente. XVI Ed arrivò il topetto tutto ansante nel Buco Oscuro dove la fazione di Rodiriso, degli oppressi amante, aveva sede con la Direzione; ed affacciando il muso palpitante, tutto stravolto dall'eccitazione, fermato sulla porta un funzionario, chiese un'udienza con il Segretario. XVII Ma quello, prima lo guardò perplesso, poi domandò il suo nome e il tesserino che solo autorizzava quell'accesso; gli disse infine, andandogli vicino, che non poteva avere quel permesso. "Pensa, compare", aggiunse, "che casino sarebbe se potesse chicchessia intendere così democrazia". XVIII E se ne andò, lasciando il tristanzuolo sul limitare un poco sconsolato, incerto sul da fare, il naso al suolo, da quella conclusione abbacinato, che stava a meditare tutto solo senza cavarne alcun significato; e più che si sforzava di capire, più non capiva che volesse dire. XIX Ma, infine, entrò facendosi coraggio, ché troppo gli pareva cosa urgente comunicare al Capo il suo messaggio. E sperso si trovò fra strana gente che appena si scansava al suo passaggio, indaffarata ininterrottamente ad aggregarsi ed a confabulare, a uscire dalle porte e a rientrare. XX In quell'andirivieni e confusione di topi a naso in alto o a capo chino, chi lo adocchiava, con ostentazione subito sussurrava al suo vicino qualche parola bassa e di occasione; sì che il topetto si sentì piccino e tornò indietro rosso come un tizzo certo di aver sbagliato l'indirizzo. XXI Ma insomma, conte, per farvela corta: mentre che zampettava ringobbito per guadagnare subito la porta, col naso che sfiorava l'impiantito e la codina che pendeva smorta, ecco che un uscio gli si aprì d'acchito proprio davanti e, là, col suo sorriso gli si parò di fronte Rodiriso. XXII Non era solo, il Capo, e parlottava di buonumore con tre funzionari; ma si vedeva che li accomiatava per ritornare, dentro, ai leggendari doveri ai quali tutta dedicava la sua giornata in ponderosi affari. Già richiudeva, ma restò interdetto notando la presenza del topetto. XXIII Si arrestò sulla soglia e a lui: "Compare!", disse con le due zampe spalancate, "Sei proprio tu? vien qui, fatti abbracciare!"; e: "Come te la passi?"; e, poi: "Guardate!", ordinò ai funzionari che a guardare erano già con facce stabiliate; "Compari, vi presento..." e, chissà come, a questo punto non gli venne il nome. XXIV Allora, intimidito, il buon topetto, vedendo Rodiriso brancolante, in un sospiro suggerì: "... Stecchetto", e gli sorrise mite e accattivante. "Certo compari, certo, ecco Sterchetto", concluse allora il Capo trionfante, "quello Sterchetto che compagno m'era durante la gloriosa primavera". XXV Sentì un disagio al tubo digerente Stecchetto quando udì così storpiato da Rodiriso in faccia a quella gente il nome bello dalla mamma dato; ma non rettificò, ponendo mente all'accoglienza del compare amato, che lo abbracciò baciandolo una volta ed una volta ancora a briglia sciolta. XXVI E, dopo, il Capo con ostentazione, come colui che amabile trasmoda non misurando bene l'effusione, tra lo stupore di ogni reggicoda gli dette una gran pacca sul groppone, di tale fatta ed a tal punto soda che Stecchetto rimase senza fiato e ancora più che mai disorientato. XXVII Ma, pure rintronato dalla botta, sentì che Rodiriso qualche cosa diceva agli altri sulla sua condotta, lodando altisonante e in bella prosa le azioni di Stecchetto nella lotta contro Camminatorto, e la gloriosa primavera passata fuori mura a contrastarne l'orrida natura. XXVIII Voleva - disse - rievocare insieme a lui le sofferenze e le battaglie condotte allora contro quelle iene fornite di terribili tenaglie ed irte e dure e corazzate schiene. Le avevano, sì, vinte le canaglie con sprezzo della morte e sacrificio! Ma, intanto, lo spingeva nell'ufficio. XXIX Così alla fine si trovò Stecchetto in una tana grande e semioscura dove, dal pavimento fino al tetto, era dipinta, enorme, una figura, quante altre mai dal ributtante aspetto, di una pesante e goffa creatura col collo raggrinzito e il becco d'osso prominente da un guscio scabro e grosso. XXX Là, su uno sfondo bianco e opalescente, giganteggiava, tetra e paonazza, la mole di quel mostro sorprendente, la crosta dura come una corazza un poco arrugginita, e appartenente a chi sa quale mai deforme razza. Eppure l'occhio aveva di una madre misto al severo sguardo di un gran padre. XXXI Ma intanto Rodiriso, silenzioso, aveva chiuso l'uscio col paletto; poi, traversato il luogo tenebroso con quattro balzi e fare circospetto, si era arrestato ed ora, velenoso, sibilava sottile: "Embè, Sterchetto?", stando accucciato sotto il gran ritratto col dorso sollevato come un gatto. XXXII E qui Stecchetto venne proprio meno, ché la visione si oscurò di botto, sentì il cervello di rumore pieno e le zampine mancarono sotto facendolo afflosciare sul terreno. Povero topo! là, come un fagotto di peli bigi abbandonato al suolo, lontano dalla tana e tutto solo! XXXIII Si risvegliò - ritengo - poco dopo», aggiunse Assaggiatore, volto al conte sospeso al filo del tramvai del topo e di sudore madida la fronte, «e solo sussurrò: "Degranchitopo", guardando Rodiriso che, di fronte, scopriva i denti in freddo luccichìo. Raccomandò di poi l'anima a Dio. XXXIV E come se davvero, all'occasione, un qualche Dio si fosse scomodato - anche Egli preso dalla compassione, vedendo il topolino impelagato sull'orlo scivoloso del burrone, senza che avesse colpa né peccato -, alla parola detta, in un momento, Rodiriso mutò l'atteggiamento. XXXV Certo che, conte, è dura da spiegare questa contiguità razionalmente; e si potrebbe dire - e anche pensare - che, dato che Stecchetto, incontinente, sol per godere e non per procreare si era dato all'amore carnalmente, gli avesse Iddio inviato quelle pene perché se ne pentisse e a fin di bene. XXXVI Insomma, la paura ed il terrore era tutta una finta, architettata per ravvedere il topo peccatore, volendo, appunto, la Bontà Incarnata, e la Misericordia e il Sommo Amore attendere, per legge, la chiamata dell'anima dolente di quel topo e sollevarlo a sé subito dopo. XXXVII E si potrebbe poi, ponendo mente a ciò che era avvenuto nell'inverno, quando si scatenò improvvisamente sulla città dei topi quell'inferno, pensare che, caritatevolmente, per spirito di amore, il Padreterno volesse così dare ai dilaniati il destro di finire tra i Beati. XXXVIII Certo, non si capisce perché mai per arrivare a questo risultato, debba servirsi Iddio proprio dei guai, del tedio e del dolore disperato, e non, invece, di strumenti gai come il piacere o l'ozio spensierato; ché basterebbe solo un Suo sorriso per trasformare il mondo in paradiso. XXXIX Lo so che si ribatte, normalmente, che, essendo il Suo volere imperscrutabile, credere il topo deve fermamente quello che alla ragione è impenetrabile, ma che risponde al vero certamente anche se appare oscuro ed è improbabile; e tuttavia ad un topo di cultura, quale voi siete, tale congettura...» XL Ma si interruppe netto Assaggiatore, quando vide che il conte rattristato, alle parole sul Divino Amore si era ad un tratto come sollevato, aveva un po' ripreso il suo colore, e se ne stava già racconsolato. Allora non concluse ed, interdetto, prese di nuovo a dire di Stecchetto: XLI «Ma si trattasse della Provvidenza, o fosse stata una combinazione, o forse - che ne so? - la convenienza per chi sa quale mai valutazione, od anche l'astrologica influenza di qualche pianetino in congiunzione; comunque, fatto sta che Rodiriso si avvicinò a Stecchetto in un sorriso. XLII E parlò basso e assai rotondamente, come se alzando il tono paventasse di intimorire l'altro ulteriormente: voleva che Sterchetto gli parlasse come a un amico da gran tempo assente di quanto nel cervello gli passasse; ché, difatti, fra i due mai c'era stato mistero che tenessero celato. XLIII Certo, certo Sterchetto ricordava le nottate nell'erba a contemplare le stelle ed i pianeti nella cava profondità del cielo, e a progettare per tutti i topi un mondo a cui sembrava degno la vita intera consacrare; poiché, anche a costo di mille dolori, dulce et decorum est pro Patria mori. XLIV Che confidasse, dunque, il buon Sterchetto a Rodiriso ancora i suoi pensieri, come accadeva quando il granchio abbietto rendeva i loro cuori battaglieri accanto al fuoco del bivacco, e in petto nascevano speranze e desideri di vedere, in un mondo rinnovato, felice un giorno il Topo e liberato. XLV E chi sa cosa ancora avrebbe detto il Capo Rodiriso e ricordato, se non si fosse accorto che Stecchetto aveva il muso un poco sollevato e, più di prima, stava lì interdetto ad ascoltare, con l'occhio appannato, le circostanze di una strana storia di cui non possedeva la memoria. XLVI È che Stecchetto proprio non capiva di qual bivacco mai stesse parlando, né alcuna stella in mente gli veniva che fosse mai venuto contemplando; si ricordava solo una giuliva primavera passata amoreggiando con chi gli capitasse sottomano, fra i cespugli, all'aperto o in mezzo al grano. XLVII Ma, vedendo che l'altro già mutava impercettibilmente atteggiamento, Stecchetto disse che sì, ricordava, sì, ricordava bene quel momento, anzi i momenti che desiderava che lui si ricordasse sul momento. Fu un discorso confuso ma, issofatto, il Capo si ritenne soddisfatto. XLVIII E infatti: "Ma, compare, tu parlavi!", gli disse amabilmente Rodiriso, facendo gli occhi teneri e soavi ed allargando ancora più il sorriso, "Certo, Sterchetto mio, certo, son gravi le cose che ti vedo scritte in viso! Ed io che stavo a chiacchierare invano del nostro tempo bello ma lontano!... IL Dimmi, Sterchetto, dimmi, su, racconta di quel Degranchitopo malfidato, di quella bestia che dei topi è l'onta, stramaledetto sia chi l'ha figliato!". Allora, con la voce poco pronta, Stecchetto riferì tirando il fiato ciò che era la mattina intervenuto fra il pipistrello nero e l'occhialuto. L Ma non gli disse, invece, un'altra cosa che a un tratto gli era emersa dalla mente, fissando nella nebbia cavernosa del gran locale oscuro ed opprimente la faccia ormai distesa e manierosa di Rodiriso in atto compiacente. Ebbe la sensazione che, al momento, fosse meglio tacere l'argomento». LI Ma qui, voltando pagina, ho trovato nel vecchio scritto chiara indicazione che il terzo canto è bell'e terminato; sì che bisogna, senza interruzione, per scoprire il mistero che è adombrato, perseverare nella traduzione. Pertanto, senza porre tempo in mezzo, accendo il lume e mi rimetto al pezzo. NOTA REDAZIONALE Il testo di Luca Chiti è un frammento (Canto III) di un lungo «romanzo in ottave» intitolato I Paraparalipomeni (Ovvero i Paralipomeni dei Paralipomeni della Batracomiomachia nuovamente ritrovati e tradotti), ulteriore continuazione dei Paralipomeni della Batracomiomachia, poemetto eroicomico in ottave di Giacomo Leopardi (1798-1837), composto tra il 1831 e il 1837, a sua volta continuazione della Batracomiomachia o Battaglia delle rane e dei topi, poemetto di 303 esametri scritto nello stile e nella lingua dell’epos omerico, la cui datazione incerta può forse risalire fino ai secc. VI-V a. C. Il romanzo chitiano [non datato, ma certamente composto prima del 2001, ndr] si compone di XL Canti diluiti in 206 pagine [207 con l’indice, ndr] di un dattiloscritto (ancora rigorosamente inedito) che è la «traduzione il più possibile fedele, rispettosa dei toni e dei contenuti» di un antico codice venuto alla luce a centocinquanta anni di distanza da quello leopardiano. «Nell’eventualità che qualche elemento della storia insospettisse lettori particolarmente maliziosi o maligni,» - scrive Chiti nell’introduzione ai suoi Paraparalipomeni - «si afferma qui in modo definitivo e solenne che ogni riferimento a fatti reali o a persone viventi e defunte di qualsiasi specie, razza, luogo ed epoca è completamente involontario e casuale». Fonte: Tèchne, 9/10/11, 2001, pp. 68-81.
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