pagina del sito di Tèchne di Paolo Albani

Luca Chiti

I PARAPARALIPOMENI

(OVVERO I PARALIPOMENI DEI PARALIPOMENI
DELLA BATRACOMIOMACHIA NUOVAMENTE RITROVATI
E TRADOTTI)

 

 
Disegno di Lori Chiti
per i Paraparalipomeni di Luca Chiti

 

Cosa importa – disse il derviscio – che ci sia male o bene? Quando Sua Altezza manda un vascello in Egitto, si preoccupa forse che i topi della stiva stiano o no a loro agio?

 

     (Voltaire, Candide, ou l’optimisme)

 

 

 

INTRODUZIONE

 

            Da piccoli fatti nascono grandi eventi (1) o, almeno, garbugli inestricabili di complicazioni. È il caso di questa ulteriore puntata della storia, come dimostra la terza parte del manoscritto testé venuta alla luce (2). Ammesso - naturalmente - che la morte per annegamento di un topo sia da considerare un piccolo accidente. In fondo si trattava pur sempre del figlio di un nipote di re, e nella vicenda ebbe parte decisiva il principe dei Ranocchi.

            Accadde a Rubabriciole - come racconta Omero o chi per lui - che, invitato da Gonfiagote alla sua reggia nel mezzo del pantano e salitogli sulle spalle per la traversata, perì miseramente nello stagno appena il nobile ranocchio si inabissò per sfuggire a una serpe acquaiola comparsa all'improvviso.

            Qui sta il primo punto. Fu come se, in quel momento, fosse venuto meno un tassello dell'ordinato equilibrio dell'universo mondo e si fosse data la stura ad un processo inarrestabile di vertiginosa entropia. Niente di strano - intendiamoci: è solo il naturale procedere delle cose. Fa un certo effetto, però.

            La disperazione del vecchio Rodipane - il padre di Rubabriciole -, la chiamata alle armi del popolo dei Topi per vendicare l'affronto di quella morte, la solenne sfida di Montapignatte al popolo dei Ranocchi, la violentissima, sanguinosa, confusa e generale baruffa dei contendenti: effettivamente il corso degli avvenimenti supera ogni ragionevole limite. Persino gli Dei - contravvenendo a un'abitudine costante - si rifiutano di partecipare a una zuffa in cui la gente è così stizzita e calda da perdere ogni religioso rispetto.

            E c'è poco da fare: neppure il fulmine di Giove riesce ad ottenere più di un breve attimo di disorientamento nel cuore di Rubatocchi, il feroce campione dei Topi, che senza legge né freno rischia di cancellare dalla faccia della terra la stirpe intera delle rane.

            E siamo al secondo punto. Perché è del tutto evidente che una tale eventualità infrangerebbe l'equilibrio universale. È necessario, perciò, introdurre un elemento che ristabilisca l'ordine ed inverta il processo di entropia. Per questo Giove fa scendere in battaglia lo scontraffatto stuolo dei Granchi che, abbrancando, tagliando, stracciando, calpestando, fanno tal macello dei Topi che costoro - tramontando ormai il sole sulla terribile giornata - abbandonano il campo e si ritraggono afflitti e muti.

            Ma quanto sforzo per mantenere le cose ordinate! che sperpero di potenza in un universo - si dice - gran risparmiatore di energia, che scivola, scivola seguendo sempre le linee di minore resistenza! Eppoi - si sa - per forza non si fa neppure l'aceto.

            Perciò, anche se la fine della prima parte del manoscritto potrebbe sembrare una conclusione, ognun vede che invece la vicenda resta in bilico, in stato di naturale precarietà.

            Si deve a Giacomo Leopardi la scoperta e la traduzione del seguito degli eventi. E si tratta - credo - di una traduzione molto fedele all'antico testo; almeno a giudicare dai primi cinque canti della continuazione, dove sembra che la materia stessa si ribelli alle costrizioni di un andamento lineare, a tal punto che la struttura delle frasi diviene spesso involuta fino all'anacoluto, la consequenzialidelle argomentazioni logiche non si armonizza sempre col ritmo dell'ottava, i fatti sono inframmezzati da digressioni spropositate. È come se, anche sul piano formale, ci si trovasse di fronte a una ribellione nei confronti di un ordine imposto forzatamente ad una natura di per sé caotica che, insofferente di legami, preme e scappa via da tutte le parti.

            Ma la conferma del significato fondo dell'opera non è soltanto indiretta. Appare francamente miracoloso trovarsi, a un certo punto della narrazione, di fronte alla testimonianza inoppugnabile di quanto l'antichissimo scrittore (3) avesse già allora chiarissima coscienza della questione. Sono le parole che mette in bocca al più rozzo e ottuso dei personaggi, il granchiesco generale Brancaforte: si deve pensare - egli dice - che questo mondo rassomigli a un bilancione, fatto di tanti gusci più o meno grandi e rispondenti fra loro; i granchi sono intervenuti negli avvenimenti proprio per mantenere questo universale marchingegno in equilibrio. Si può essere - dico - più chiari di così?

            Ma intanto la storia, sia pure a pezzi e a bocconi, va avanti: la fuga dei Topi, il loro rifugiarsi nella sotterranea e oscura citdi Topaia, l'elezione popolare di Rodipane, re costituzionale al posto del defunto Mangiaprosciutti, l'incarico al probo e colto conte Leccafondi di andare a parlamentare con i vincitori, l'imposizione di una guarnigione di Granchi da alloggiare nella cittadella di Topaia, la nomina a ministro e consigliere del re dello stesso Leccafondi, la sua politica culturale ed economica - come si direbbe oggi - illuminata, la soluzione costituzionale non gradita a Senzacapo il re dei Granchi, il tentativo di resistenza all'esercito delle bestiacce da parte dei Topi, miseramente fallito per l'improvviso panico generale che li prende alla sola vista da lontano delle schiere nemiche, l'eroica morte in battaglia di Rubatocchi.

            E poi l'imposizione a Topaia dell'inviato Camminatorto granchio che obbliga alla legge dei vincitori, i ridicoli e superficiali tentativi dei giovani topi di resistere organizzandosi in società segrete. Infine la cacciata del povero Leccafondi.

            È l'onesto conte il protagonista degli ultimi tre canti i quali, narrando una vicenda di per sé meno costretta e più disordinata, come si addice al destino di un errante esiliato, trovano anche nello stile e nella sonoridella metrica maggiore agio e scioltezza e - per così dire - efficaci e frequenti momenti di coinvolgente ed espansa narratività.

            È, quella del conte, una vana ricerca di aiuti esterni per la causa di Topaia oppressa che si conclude con un gran temporale e col povero topo mézzo e infreddolito che bussa a notte fonda alla porta del palazzo di Dedalo, strano e originale personaggio umano (4). Costui, dopo aver accolto e rifocillato il topolino, ascoltatine i problemi, gli consiglia di ricercare la soluzione consultando nell'aldilà le anime degli eroici antenati del popolo dei Topi.

            Inizia così il volante viaggio dei due personaggi che, varcate terre e mari primigeni, giungono finalmente a un'isola che, solitaria, si eleva a picco in mezzo all'oceano, costantemente avvolta nell'oscurità di una nebbia perenne: è l'Averno dei bruti, verso cui convergono senza interruzione, da tutte le direzioni, le anime mute di tutti gli animali che muoiono, rasentando le onde.

            Ed eccole le larve dei trapassati topi: sedute nelle viscere del monte, tutte in fila su uguali sedili di pietra, fisse e indifferenti, ciascuna con le mani appoggiate a un bastoncello, le facce allungate e sonnolente. Insomma sono la rappresentazione sensibile dello stato di entropia, che è poi semplicemente un modo solo un po' più complicato e filosofico per dire morte. Ed anche più scaramantico.

            Stonano su questo sfondo le domande del conte e provocano una stridente e cigolante e impossibile risata dei morti che si diffonde e riecheggia per le profonde volte dei sotterranei corridoi. Ma alla fine un consiglio pur viene da quelle ombre: si rivolga Leccafondi all'ormai vecchio e glorioso Assaggiatore, che vive solitario e sdegnoso in una povera casa di Topaia. Da lui ascolti le risposte.

            Allora, mascherato da granchio, Leccafondi rientra nella sua città; ma quando Assaggiatore sta per cominciare la risposta, il manoscritto si interrompe e il lettore resta ancora una volta con un palmo di naso.

            Quella che segue è, dopo quella del Leopardi, la ulteriore continuazione della storia, tratta da un antico codice venuto alla luce a centocinquanta anni di distanza. Di essa si fornisce qui una traduzione il più possibile fedele, rispettosa dei toni e dei contenuti del testo originale (5).

 

 

 

NOTE ALL’INTRODUZIONE

 

(1) Senza stare a scomodare il clinamen di ascendenza epicurea e lucreziana per giustificare una affermazione di tale condivisa e generale evidenza, si preferisce qui rimandare a lettura più facile ed agevole - ma non per questo meno istruttiva e chiarificatrice. Si confronti, pertanto, C. BARKS, A Christmas for Shacktown, in «Donald Duck Four Color», 367, Jan.-Feb. 1952 (trad. il. Paperino e il ventino fatale). Ma forse basta il noto proverbio secondo cui «per un punto Martin perse la cappa».

(2) La prima, come è noto, è la Βατραχομυομαχα di epoca alessandrina: la seconda sono i Paralipomeni della Batracomiomachia, poemetto in ottave di G. Leopardi composto tra il 1811 e il 1817.

(3) Intendo dire g l'anonimo autore del manoscritto, non il Leopardi, naturalmente.

(4) Con un dotto e persuasivo intervento, inserito direttamente nel testo, il Leopardi dimostra. filologicamente, non trattarsi del noto Dedalo legato al mito di Creta e al tragico incidente di volo del di lui figlio. Si tratta invece di un omonimo vissuto in epoca di molti anni o secoli antecedente.

(5) Nota: alcuni critici e studiosi di questa materia, ritengono che di tutta la vicenda si debba privilegiare una interpretazione - a dir così - «politica», invece che «filosofica». Su questo argomento il curatore e traduttore della presente edizione non intende esprimere alcun giudizio.

 

 

 

CANTO III

 

Benché il curatore e traduttore di questi Paraparalipomeni propenda più per una interpretazione «filosofica» dell’opera che si presenta come la continuazione dei Paralipomeni leopardiani, egli non può tuttavia sorvolare sulla curiosa circostanza che coloro che sin qui l’hanno letta ne abbiano ricavato invece una idea prevalentemente «politica», individuando nei fatti e nei personaggi significativi aspetti che rimanderebbero a vicende e protagonisti della recente storia italiana e non solo. A lui pare un evidente anacronismo data l’antichità del malandato codice che la contiene. E tuttavia è difficile negare che, dietro a figure, razze o luoghi come Degranchitopo, Rodiriso, il pipistrello, il Buco oscuro e via dicendo (solo per restare al terzo dei trentanove canti più un frammento del quarantesimo che compongono il poemetto) si abbia incredibilmente l’impressione di scorgere nelle linee generali, e spesso anche nei particolari, elementi a conferma della impossibile tesi politica. Misteri dell’arte.

Certamente del tutto immaginarie appaiono invece le figure, già presenti in Leopardi, di Assaggiatore e del suo ospite, il probo Conte Leccafondi, che lo sta ad ascoltare mentre quello gli racconta gli avvenimenti che si sono verificati a Topaia durante il lungo periodo del suo esilio. Anche il mite Stecchetto, che non è presente nel Leopardi, parrebbe appartenere alla medesima categoria.

L’episodio che segue si colloca dopo che in Topaia è stata celebrata la Liberazione dall’oppressione dei Granchi di Camminatorto e dopo che, proprio in occasione della prima riunione del parlamento, si è determinata una imprevista e radicale frattura fra la fazione di Degranchitopo e quella di Rodiriso, che pure nella gioia del glorioso momento avevano sfilato insieme fra due ali di popolo, uniti e solidali nel comune ideale di libertà.

Assaggiatore cerca di individuarne fatti e circostanze capaci di dare ragione dell’accaduto.

 

 

 

I

Dice nel terzo canto il vecchio testo

che aprì uno sportellino Assaggiatore

e poi dalla bottiglia con bel gesto

versò due bicchierini di liquore;

infine ritornato lesto lesto,

porgendone uno al conte ascoltatore,

si sedette di nuovo e, più disteso,

narrò questa vicenda per esteso:

 

II

«Di ciò che vi dirò testimonianza

certa di topi esiste ed attendibile,

anche se può tutta la circostanza

sembrare di per sé poco credibile».

Ed, esitando un po', fissò la stanza

come vedesse un'ombra non visibile;

ma poi posò per terra il bicchierino

e proseguì così, col capo chino:

 

III

«Un dì Degranchitopo, uscito presto,

fu visto per i vicoli più scuri

furtivo zampettare lesto lesto,

imbacuccato e rasentando i muri

in un atteggiamento poco onesto,

e accompagnato da quattro figuri

che, avvolti fino al muso in un mantello,

lo portarono dritto in un bordello.

 

IV

Forse credeva, il topo, di potere

passare di straforo e inosservato

o, male che gli andasse, che il sapere

che entrava in tale albergo malfamato,

regno della lussuria e del piacere,

avrebbe poco scandalo destato,

poiché non è di legno un onorevole

e - come ben si sa - la carne è debole.

 

V

Invece non pensò, probabilmente,

che in luogo come quello, aperto a tutti

e sempre frequentato fittamente

da topi onesti e topi farabutti,

ogni cosa si sa immediatamente

di quello che vi accade e dei suoi frutti;

e che stranezze di comportamento

sono viste e annotate in un momento.

 

VI

Insomma, ad un topetto intrattenuto,

una topetta che lo intratteneva

disse di avere dabbasso veduto

entrare nel salone uno che aveva

simile in tutto il muso all'occhialuto

Degranchitopo quando lo sporgeva;

e che, passando alle topane in mezzo

rigido quanto mai e tutto di un pezzo,

 

VII

vano era stato fargli le moine

sdraiate in positure provocanti

sopra i cuscini di tessuto fine;

vano agitare code indietro e avanti

scoprendo certe parti sopraffine;

vano guardarlo dolci e conturbanti;

e vani anche gli inviti della grassa

topessa tenutaria che era a cassa.

 

VIII

Era passato dritto come un fuso

scortato da quei quattro col mantello

e, senza mai voltare ai lati il muso,

nella stanzina al fondo del bordello

silenzïosamente si era chiuso.

Poi, dopo un po', era giunto un pipistrello

con un berretto in testa tutto bianco

ed un pendaglio d'oro lungo il fianco.

 

IX

Costui, con gli occhi bassi e dentro le ali

che tutto lo avvolgevano ampiamente,

a passettini poco naturali

e fitti fitti, fendendo la gente

con sospiretti un po' spirituali,

si era diretto assai velocemente

verso la porta dello stambugetto,

scivolandovi poi come un furetto.

 

X

"Ed ora giù", concluse la topina,

"soltanto i quattro ceffi son restati

che, sugli attenti, a quella porticina

fanno la guardia al modo dei soldati,

mandando via chiunque si avvicina

coi loro lunghi artigli sfoderati".

Il topo, allora, che era lì a godere,

ebbe un sussulto e si levò a sedere.

 

XI

E fece tutto a un tratto più attenzione

a certi rantoletti sospiranti,

a certi gridi e all'affabulazione

confusa che dal basso in anfananti

suoni veniva su da due persone

certo impegnate in giochi stuzzicanti.

Scese, infine, dal letto e al pavimento

pose l'orecchio ad ascoltare intento.

 

XII

Sentì che erano voci un poco grosse

quelle gli giungevano dal palco,

grufolanti, svenevoli e commosse

ed accordate al fine di ogni assalto

che procedeva con ritmate scosse;

né toni di soprano o di contralto

il topo udì; ma piuttosto di basso

salivano squittii dal materasso.

 

XIII

Allora si fiondò giù per le scale

tenendo conto dell'orientamento,

curioso di conoscere se il tale

che era venuto a quell'appuntamento

con un compagno poco abituale,

stesse là proprio sotto il pavimento

della stanzetta al piano superiore

dove egli stava lieto a far l'amore.

 

XIV

Gli parve, quando giunse al pianterreno,

che fosse confermato il suo sospetto;

che fosse certo ormai - nientedimeno! -

che quel Degranchitopo stava a letto

con un pipistrellaccio in atto osceno,

di quelli a capo in giù sospesi al tetto;

che aveva disdegnato, quel vizioso,

l'oggetto natural di ogni amoroso.

 

XV

Sortì il topetto dopo aver pagato,

e per la strada a ognuno che incontrava

narrava quello che era capitato

là nel bordello dove si trovava

il pio Degranchitopo depravato;

ma, soprattutto, lesto galoppava

per dare la notizia sconvolgente

a Rodiriso ed alla sua corrente.

 

XVI

Ed arrivò il topetto tutto ansante

nel Buco Oscuro dove la fazione

di Rodiriso, degli oppressi amante,

aveva sede con la Direzione;

ed affacciando il muso palpitante,

tutto stravolto dall'eccitazione,

fermato sulla porta un funzionario,

chiese un'udienza con il Segretario.

 

XVII

Ma quello, prima lo guardò perplesso,

poi domandò il suo nome e il tesserino

che solo autorizzava quell'accesso;

gli disse infine, andandogli vicino,

che non poteva avere quel permesso.

"Pensa, compare", aggiunse, "che casino

sarebbe se potesse chicchessia

intendere così democrazia".

 

XVIII

E se ne andò, lasciando il tristanzuolo

sul limitare un poco sconsolato,

incerto sul da fare, il naso al suolo,

da quella conclusione abbacinato,

che stava a meditare tutto solo

senza cavarne alcun significato;

e più che si sforzava di capire,

più non capiva che volesse dire.

 

XIX

Ma, infine, entrò facendosi coraggio,

ché troppo gli pareva cosa urgente

comunicare al Capo il suo messaggio.

E sperso si trovò fra strana gente

che appena si scansava al suo passaggio,

indaffarata ininterrottamente

ad aggregarsi ed a confabulare,

a uscire dalle porte e a rientrare.

 

XX

In quell'andirivieni e confusione

di topi a naso in alto o a capo chino,

chi lo adocchiava, con ostentazione

subito sussurrava al suo vicino

qualche parola bassa e di occasione;

sì che il topetto si sentì piccino

e tornò indietro rosso come un tizzo

certo di aver sbagliato l'indirizzo.

 

XXI

Ma insomma, conte, per farvela corta:

mentre che zampettava ringobbito

per guadagnare subito la porta,

col naso che sfiorava l'impiantito

e la codina che pendeva smorta,

ecco che un uscio gli si aprì d'acchito

proprio davanti e, là, col suo sorriso

gli si parò di fronte Rodiriso.

 

XXII

Non era solo, il Capo, e parlottava

di buonumore con tre funzionari;

ma si vedeva che li accomiatava

per ritornare, dentro, ai leggendari

doveri ai quali tutta dedicava

la sua giornata in ponderosi affari.

Già richiudeva, ma restò interdetto

notando la presenza del topetto.

 

XXIII

Si arrestò sulla soglia e a lui: "Compare!",

disse con le due zampe spalancate,

"Sei proprio tu?  vien qui, fatti abbracciare!";

e: "Come te la passi?"; e, poi: "Guardate!",

ordinò ai funzionari che a guardare

erano già con facce stabiliate;

"Compari, vi presento..." e, chissà come,

a questo punto non gli venne il nome.

 

XXIV

Allora, intimidito, il buon topetto,

vedendo Rodiriso brancolante,

in un sospiro suggerì: "... Stecchetto",

e gli sorrise mite e accattivante.

"Certo compari, certo, ecco Sterchetto",

concluse allora il Capo trionfante,

"quello Sterchetto che compagno m'era

durante la gloriosa primavera".

 

XXV

Sentì un disagio al tubo digerente

Stecchetto quando udì così storpiato

da Rodiriso in faccia a quella gente

il nome bello dalla mamma dato;

ma non rettificò, ponendo mente

all'accoglienza del compare amato,

che lo abbracciò baciandolo una volta

ed una volta ancora a briglia sciolta.

 

XXVI

E, dopo, il Capo con ostentazione,

come colui che amabile trasmoda

non misurando bene l'effusione,

tra lo stupore di ogni reggicoda

gli dette una gran pacca sul groppone,

di tale fatta ed a tal punto soda

che Stecchetto rimase senza fiato

e ancora più che mai disorientato.

 

XXVII

Ma, pure rintronato dalla botta,

sentì che Rodiriso qualche cosa

diceva agli altri sulla sua condotta,

lodando altisonante e in bella prosa

le azioni di Stecchetto nella lotta

contro Camminatorto, e la gloriosa

primavera passata fuori mura

a contrastarne l'orrida natura.

 

XXVIII

Voleva - disse - rievocare insieme

a lui le sofferenze e le battaglie

condotte allora contro quelle iene

fornite di terribili tenaglie

ed irte e dure e corazzate schiene.

Le avevano, sì, vinte le canaglie

con sprezzo della morte e sacrificio!

Ma, intanto, lo spingeva nell'ufficio.

 

XXIX

Così alla fine si trovò Stecchetto

in una tana grande e semioscura

dove, dal pavimento fino al tetto,

era dipinta, enorme, una figura,

quante altre mai dal ributtante aspetto,

di una pesante e goffa creatura

col collo raggrinzito e il becco d'osso

prominente da un guscio scabro e grosso.

 

XXX

Là, su uno sfondo bianco e opalescente,

giganteggiava, tetra e paonazza,

la mole di quel mostro sorprendente,

la crosta dura come una corazza

un poco arrugginita, e appartenente

a chi sa quale mai deforme razza.

Eppure l'occhio aveva di una madre

misto al severo sguardo di un gran padre.

 

XXXI

Ma intanto Rodiriso, silenzioso,

aveva chiuso l'uscio col paletto;

poi, traversato il luogo tenebroso

con quattro balzi e fare circospetto,

si era arrestato ed ora, velenoso,

sibilava sottile: "Embè, Sterchetto?",

stando accucciato sotto il gran ritratto

col dorso sollevato come un gatto.

 

XXXII

E qui Stecchetto venne proprio meno,

ché la visione si oscurò di botto,

sentì il cervello di rumore pieno

e le zampine mancarono sotto

facendolo afflosciare sul terreno.

Povero topo!  là, come un fagotto

di peli bigi abbandonato al suolo,

lontano dalla tana e tutto solo!

 

XXXIII

Si risvegliò - ritengo - poco dopo»,

aggiunse Assaggiatore, volto al conte

sospeso al filo del tramvai del topo

e di sudore madida la fronte,

«e solo sussurrò: "Degranchitopo",

guardando Rodiriso che, di fronte,

scopriva i denti in freddo luccichìo.

Raccomandò di poi l'anima a Dio.

 

XXXIV

E come se davvero, all'occasione,

un qualche Dio si fosse scomodato

- anche Egli preso dalla compassione,

vedendo il topolino impelagato

sull'orlo scivoloso del burrone,

senza che avesse colpa né peccato -,

alla parola detta, in un momento,

Rodiriso mutò l'atteggiamento.

 

XXXV

Certo che, conte, è dura da spiegare

questa contiguità razionalmente;

e si potrebbe dire - e anche pensare -

che, dato che Stecchetto, incontinente,

sol per godere e non per procreare

si era dato all'amore carnalmente,

gli avesse Iddio inviato quelle pene

perché se ne pentisse e a fin di bene.

 

XXXVI

Insomma, la paura ed il terrore

era tutta una finta, architettata

per ravvedere il topo peccatore,

volendo, appunto, la Bontà Incarnata,

e la Misericordia e il Sommo Amore

attendere, per legge, la chiamata

dell'anima dolente di quel topo

e sollevarlo a sé subito dopo.

 

XXXVII

E si potrebbe poi, ponendo mente

a ciò che era avvenuto nell'inverno,

quando si scatenò improvvisamente

sulla città dei topi quell'inferno,

pensare che, caritatevolmente,

per spirito di amore, il Padreterno

volesse così dare ai dilaniati

il destro di finire tra i Beati.

 

XXXVIII

Certo, non si capisce perché mai

per arrivare a questo risultato,

debba servirsi Iddio proprio dei guai,

del tedio e del dolore disperato,

e non, invece, di strumenti gai

come il piacere o l'ozio spensierato;

ché basterebbe solo un Suo sorriso

per trasformare il mondo in paradiso.

 

XXXIX

Lo so che si ribatte, normalmente,

che, essendo il Suo volere imperscrutabile,

credere il topo deve fermamente

quello che alla ragione è impenetrabile,

ma che risponde al vero certamente

anche se appare oscuro ed è improbabile;

e tuttavia ad un topo di cultura,

quale voi siete, tale congettura...»

 

XL

Ma si interruppe netto Assaggiatore,

quando vide che il conte rattristato,

alle parole sul Divino Amore

si era ad un tratto come sollevato,

aveva un po' ripreso il suo colore,

e se ne stava già racconsolato.

Allora non concluse ed, interdetto,

prese di nuovo a dire di Stecchetto:

 

XLI

«Ma si trattasse della Provvidenza,

o fosse stata una combinazione,

o forse - che ne so? - la convenienza

per chi sa quale mai valutazione,

od anche l'astrologica influenza

di qualche pianetino in congiunzione;

comunque, fatto sta che Rodiriso

si avvicinò a Stecchetto in un sorriso.

 

XLII

E parlò basso e assai rotondamente,

come se alzando il tono paventasse

di intimorire l'altro ulteriormente:

voleva che Sterchetto gli parlasse

come a un amico da gran tempo assente

di quanto nel cervello gli passasse;

ché, difatti, fra i due mai c'era stato

mistero che tenessero celato.

 

XLIII

Certo, certo Sterchetto ricordava

le nottate nell'erba a contemplare

le stelle ed i pianeti nella cava

profondità del cielo, e a progettare

per tutti i topi un mondo a cui sembrava

degno la vita intera consacrare;

poiché, anche a costo di mille dolori,

dulce et decorum est pro Patria mori.

 

XLIV

Che confidasse, dunque, il buon Sterchetto

a Rodiriso ancora i suoi pensieri,

come accadeva quando il granchio abbietto

rendeva i loro cuori battaglieri

accanto al fuoco del bivacco, e in petto

nascevano speranze e desideri

di vedere, in un mondo rinnovato,

felice un giorno il Topo e liberato.

 

XLV

E chi sa cosa ancora avrebbe detto

il Capo Rodiriso e ricordato,

se non si fosse accorto che Stecchetto

aveva il muso un poco sollevato

e, più di prima, stava lì interdetto

ad ascoltare, con l'occhio appannato,

le circostanze di una strana storia

di cui non possedeva la memoria.

 

XLVI

È che Stecchetto proprio non capiva

di qual bivacco mai stesse parlando,

né alcuna stella in mente gli veniva

che fosse mai venuto contemplando;

si ricordava solo una giuliva

primavera passata amoreggiando

con chi gli capitasse sottomano,

fra i cespugli, all'aperto o in mezzo al grano.

 

XLVII

Ma, vedendo che l'altro già mutava

impercettibilmente atteggiamento,

Stecchetto disse che sì, ricordava,

sì, ricordava bene quel momento,

anzi i momenti che desiderava

che lui si ricordasse sul momento.

Fu un discorso confuso ma, issofatto,

il Capo si ritenne soddisfatto.

 

XLVIII

E infatti: "Ma, compare, tu parlavi!",

gli disse amabilmente Rodiriso,

facendo gli occhi teneri e soavi

ed allargando ancora più il sorriso,

"Certo, Sterchetto mio, certo, son gravi

le cose che ti vedo scritte in viso!

Ed io che stavo a chiacchierare invano

del nostro tempo bello ma lontano!...

 

IL

Dimmi, Sterchetto, dimmi, su, racconta

di quel Degranchitopo malfidato,

di quella bestia che dei topi è l'onta,

stramaledetto sia chi l'ha figliato!".

Allora, con la voce poco pronta,

Stecchetto riferì tirando il fiato

ciò che era la mattina intervenuto

fra il pipistrello nero e l'occhialuto.

 

L

Ma non gli disse, invece, un'altra cosa

che a un tratto gli era emersa dalla mente,

fissando nella nebbia cavernosa

del gran locale oscuro ed opprimente

la faccia ormai distesa e manierosa

di Rodiriso in atto compiacente.

Ebbe la sensazione che, al momento,

fosse meglio tacere l'argomento».

 

LI

Ma qui, voltando pagina, ho trovato

nel vecchio scritto chiara indicazione

che il terzo canto è bell'e terminato;

sì che bisogna, senza interruzione,

per scoprire il mistero che è adombrato,

perseverare nella traduzione.

Pertanto, senza porre tempo in mezzo,

accendo il lume e mi rimetto al pezzo.

 

 


NOTA REDAZIONALE

 

            Il testo di Luca Chiti è un frammento (Canto III) di un lungo «romanzo in ottave» intitolato I Paraparalipomeni (Ovvero i Paralipomeni dei Paralipomeni della Batracomiomachia nuovamente ritrovati e tradotti), ulteriore continuazione dei Paralipomeni della Batracomiomachia, poemetto eroicomico in ottave di Giacomo Leopardi (1798-1837), composto tra il 1831 e il 1837, a sua volta continuazione della Batracomiomachia o Battaglia delle rane e dei topi, poemetto di 303 esametri scritto nello stile e nella lingua dell’epos omerico, la cui datazione incerta può forse risalire fino ai secc. VI-V a. C.

            Il romanzo chitiano [non datato, ma certamente composto prima del 2001, ndr] si compone di XL Canti diluiti in 206 pagine [207 con l’indice, ndr] di un dattiloscritto (ancora rigorosamente inedito) che è la «traduzione il più possibile fedele, rispettosa dei toni e dei contenuti» di un antico codice venuto alla luce a centocinquanta anni di distanza da quello leopardiano.

       «Nell’eventualità che qualche elemento della storia insospettisse lettori particolarmente maliziosi o maligni,» - scrive Chiti nell’introduzione ai suoi Paraparalipomeni - «si afferma qui in modo definitivo e solenne che ogni riferimento a fatti reali o a persone viventi e defunte di qualsiasi specie, razza, luogo ed epoca è completamente involontario e casuale».

 

 

Fonte: Tèchne, 9/10/11, 2001, pp. 68-81.


A proposito de I Paraparalipomeni Luca mi mandò questa lettera datata 9 novembre 1998, ancora non ci eravamo conosciuti di persona:





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