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Daniil Charms
LA SCIABOLA




§ 1

La vita si divide in ore lavorative e ore non lavorative.
Le ore non lavorative creano lo schema di una tromba. Le ore lavorative riempiono queste trombe.

Il lavoro in forma di vento
vola dentro la tromba piena.
La tromba canta con voce pigra.
Noi ascoltiamo l'ululare delle trombe.
E il nostro corpo si fa a un tratto più piccolo
si trasforma in un bel vento;
d'un tratto ci sdoppiamo:
a destra una manina
a sinistra una manina
a destra un piedino
a sinistra un piedino,
fianchi e orecchie e occhi e spalle
sono il nostro confine col resto.
Come rime i nostri confini
brillano come lama d'acciaio.



§ 2

Le ore non lavorative sono una tromba vuota. Nelle ore non lavorative ce ne stiamo sdraiati sul divano, fumiamo e cantiamo molto, andiamo a fare visite, parliamo molto, giustificandoci gli uni agli occhi degli altri. Giustifichiamo le nostre azioni, ci distinguiamo da tutto il resto e diciamo che abbiamo diritto a vivere in maniera indipendente. A questo punto cominciamo ad avere l'impressione di possedere il peso che è fuori di noi. E tutto ciò che esiste al di fuori di noi e che si distingue da noi e da tutto il resto, tutto ciò (ciò di cui stiamo parlando ora, uno spazio foss'anche pieno d'aria) noi lo chiamiamo oggetto.
L'oggetto viene da noi individuato come un mondo a sé stante e comincia a possedere tutto ciò che si trova al di fuori di lui, così come lo possediamo noi.
Gli oggetti che esistono di per sé non sono più soggetti alle leggi delle serie logiche e galoppano nello spazio, dove vogliono, come noi. Dietro agli oggetti galoppano anche i nomi di tipo sostantivale. I sostantivi danno vita ai verbi e donano ai verbi libera scelta: gli oggetti, seguendo i sostantivi, compiono azioni diverse, libere come un nuovo verbo. Si creano nuove qualità, e con esse anche aggettivi liberi. Così cresce una nuova generazione di parti del discorso. Il discorso, libero dal tracciato logico, corre per vie nuove che lo delimitano dagli altri discorsi. I limiti del discorso brillano un po' più vividi affinché si veda dov'è la fine e dov'è il principio, altrimenti finiremmo per perderci.
Questi limiti, come venticelli, volano in uno spazio vuoto - nella tromba. La tromba comincia a risuonare, e noi sentiamo una rima.


§ 3

Urrà! i versi ci hanno oltrepassato!
Noi non siamo liberi come versi.
Si ode nelle trombe la voce del vento
e noi siamo deboli e taciti.
Dov'è il confine dei nostri corpi,
i nostri fianchi luminosi?
Siamo vaghi come luglio,
siamo ancora indifesi.
Corrono le parole e i discorsi,
dietro galoppano gli oggetti,
e noi ci battiamo in battaglia,
Urrà! gridiamo alle vittorie.

È cosi che prendiamo gusto alla condizione lavorativa. Non c'è proprio il tempo di fermarsi a pensare al cibo e agli ospiti. I discorsi cessano di giustificare le nostre azioni. Nel matrimonio non ci si giustifica e non ci si scusa. Adesso ognuno vive per se stesso. Ognuno da solo di sua spontanea volontà si mette in movimento e passa attraverso gli altri. Tutto ciò che esiste al di fuori di noi ha cessato di essere dentro noi stessi. Ormai non somigliamo più al mondo che ci circonda. Il mondo ci vola in bocca sotto forma di singoli pezzetti: di pietra, catrame, vetro, ferro, legno eccetera. Avvicinandoci a un tavolo diciamo: è un tavolo, non sono io, e perciò - piglia questo! e giù un pugno sul tavolo e il tavolo si spacca in due, e le metà si trasformano in polvere e noi giù alla polvere; ma la polvere ci entra in bocca e noi diciamo: È polvere, non sono io - e meniamo un colpo alla polvere. Ma la polvere ormai non teme più i nostri colpi.



§ 4

Ce ne stiamo qui e diciamo: Ecco, ho steso un braccio in avanti proprio davanti a me, e l'altro braccio indietro. Ed ecco, davanti finisco là dove finisce il mio braccio, e anche dietro finisco là dove finisce l'altro mio braccio. In alto finisco con la nuca, in basso con i talloni, ai lati con le spalle. EccoMI tutto. E quello che è fuori di me non sono già più io.

Adesso che siamo del tutto ben delimitati, lucidiamo i nostri confini, perché si veda meglio dove comincia quello che non siamo noi. Lucidiamo il punto inferiore, gli stivali, il punto superiore, la nuca, lo evidenziamo con una pianella. Ai polsi indossiamo polsini abbaglianti, e sulle spalle le spalline. Adesso si vede subito dove siamo finiti noi e dove è cominciato tutto il resto.



§ 5

Ecco le tre coppie dei nostri confini.
    l     braccio-braccio
    2     spalla-spalla
    3     nuca-talloni



§ 6

Domanda: È cominciato il nostro lavoro? E se è cominciato, in che cosa consiste?
Risposta: Il nostro lavoro comincia adesso, consiste nella registrazione del mondo, perché adesso noi non siamo più mondo.

D. Se noi adesso non siamo mondo, che cosa siamo?
R. No, noi siamo mondo. Cioè, non mi sono espresso in modo del tutto corretto. Non è che non siamo mondo, è che noi siamo per conto nostro, e lui per conto suo. È chiaro che esistono i numeri: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 etc. Tutti questi numeri costituiscono una serie numerica, di calcolo. Ogni numero in essa troverà il suo posto. Ma l'l è un numero particolare. Può stare da parte, come indicatore dell'esecuzione del calcolo. Il 2 è già il primo calcolo di plurale, e dopo il 2 ci sono tutti gli altri numeri. Ci sono selvaggi che sanno contare solo così: uno e molti. Ecco, anche noi nel mondo siamo come l'unità nella serie numerica.
D. Bene, e come faremo a registrare il mondo?
R. Proprio come l'unità che registra gli altri numeri, cioè entrando in loro e osservando cosa ne salta fuori.
 È così che l'unità registra gli altri numeri?
R. Poniamo che sia così. Non ha importanza.
D. Strano, come faremo ad entrare negli altri oggetti collocati nel mondo? Guardando quanto un armadio è più lungo, più largo e più alto di noi? Così allora?
 L'unità viene rappresentata da noi con il simbolo di un'astina. Il simbolo dell'unità è solo la forma più comoda per rappresentare l'unità, come lo è il simbolo di qualsiasi numero. Così anche noi siamo soltanto la forma più comoda di noi stessi.
L'unità, registrando il due, non entra con il suo segno nel segno del due. L'unità registra i numeri con la propria qualità. Così dobbiamo fare anche noi.
 Ma qual è la nostra qualità?
R. La rovina dell'orecchio
è la sordità,
la rovina del naso
è la nasità,
la rovina del cielo
è la mutezza,
la rovina del cece
è la cecità.
La qualità astratta dell'unità non la conosciamo neppure noi. Ma il concetto di unità esiste in noi come concetto di qualche cosa. Per esempio del metro. L'unità registra il due, cioè: un metro sta dentro due metri, un fiammifero sta dentro due fiammiferi, eccetera. Di queste unità ce ne sono già molte. Così anche l'uomo non è uno, ma sono molti. E qualità ce ne sono tante quanti sono gli uomini. E ognuno di noi ha la sua qualità particolare.
D. Che qualità ho io?
R: Per l'appunto. Il lavoro comincia con la ricerca della propria qualità. Poiché con questa qualità ci toccherà in seguito armeggiare, la chiameremo arma.
 Ma come potrò trovare la mia arma?



§ 7

Se non ci sono più mezzi
per sconfiggere l'invasione dei significati
bisogna uscire con orgoglio dalla guerra
e fare il proprio tranquillo lavoro.
Un lavoro tranquillo è costruire una casa
di tronchi con l'aiuto dell'ascia.
Uscii nel mondo sordo per i tuoni.
Si disperse una montagna di case.
Ma la sciabola residuo di guerra
mia unica carne
trancia con un sibilo gli spioventi dei tetti
non avendo forza di spaccare i travi.
Cambiare l'opera, o l'arma?
Abbattere il nemico o costruire una casa?
O a una fanciulla strappare dalla quercia il pizzo
e affondarle poi la sciabola nel petto.
Sono un carpentiere armato di sciabola
vado incontro alla casa come a un nemico.
La casa e il centro colpiti dalla sciabola
stanno le corna abbassate verso i piedi.
Ecco la mia sciabola, la mia misura,
fede e misura, la mia megera.



Aggiunta

§ 8

Koz'ma Prutkov registrava il mondo attraverso l'ufficio saggio metalli preziosi, perciò era armato di sciabola*.
Erano armati di sciabola: Goethe, Blake, Lomonosov, Gogol', Prutkov, Chlebnikov. Avuta la sciabola ci si può mettere all'opera e registrare il mondo.



§ 9

Registrazione del mondo
(sciabola-misura)
Fine

19-20 novembre 1929



* Sogno di Koz'ma Prutkov: un generale nudo. Che bello che il generale avesse le spalline, peccato solo che non le abbia date a Prutkov.



Nota [di Rosanna Giacquinta]

    Se partiamo dalla fine, ci illumina il riferimento a Koz'ma Prutkov, poeta ottocentesco d'invenzione, ossia il riferimento all'assurdo storico, alla creazione di categorie fittizie e aberranti, così come Goethe e Blake, Gogol' e Chlebnikov non sono che testimonianze a favore dell'immagine (e dell'immaginosità) che scaccia il significato.
    Il pezzo La sciabola può essere parafrasato come segue: dal byt allo spazio, dallo spazio alla percezione del mondo per simboli semantici, dal simbolo al verso, dal verso alla misurazione, la misurazione richiede un metro, e il metro è un'arma. Due poli sono imprescindibili: il byt, mortificante riferimento reale charmsiano, il quotidiano in cui "facciamo visite", "fumiamo e cantiamo" (ma la probabilità di un refuso potrebbe suggerirci di leggere "beviamo"), e la logica, la curiosità per il segno; che oscilla tra ansia di nominazione e lotta "per sconfiggere l'invasione dei significati". Nella poesia-preghiera Molitva pered snom (Preghiera prima di dormire, 1931) Charms pregherà Dio di destarlo "forte per la battaglia con i significati", per resistere alle categorie precostituite. È invece l'io, la coscienza dell'io nello spazio, che "registra", misura e nomina il mondo. L'io come unicità si delimita in rapporto alla serie numerica come numero primo e origine, e il corpo misura se stesso in relazione allo spazio, i nostri confini sono "lama d'acciaio", e brillano "come rime". Sono molte le poesie di Charms dedicate in questi anni al tema dell'oggetto, del nome che lo nomina, dell'io che lo scruta. Quella che prevale è però sempre - e non potrebbe essere altrimenti, per il creatore di un assurdo tanto russo quanto sovietico - anni Venti - una logica poetica, ossia una considerazione del rapporto soggetto-mondo che fonda la sua dubbia affidabilità sul rifiuto dei valori di vero-falso, causa-effetto, sostanza-predicato, e si sbilancia in direzione della parola poetica.
    Quest'opera, così composita, ben rappresenta la ricerca charmsiana nel campo della forma, ricerca che qui prende contemporaneamente diverse direzioni. Prosa, poesia e dialogo: sono questi i modi della produzione di Charms, quasi mai puri, spesso accostati tra loro in una specie di addizione di frammenti. Per Charms infatti raramente esiste la forma finita, sono poche le liriche che possiamo definire tali, mentre i mini-racconti, che potremmo pensare in sé conchiusi, sono sovente liquidati con chiuse frettolose del tipo "Beh, tutto qui", "Poi mi sono stancato e me ne sono andato", " ... ma in fondo non è interessante parlarne". Interruzioni più che conclusioni, dunque, che mettono fine a sequenze di eventi non collegati logicamente (le mini-prose), di repliche pericolose come armi (si vedano i molti dialoghi con finale scomparsa di uno degli interlocutori), di versi connessi solo dal suono o dalle variazioni attorno ad un'idea fissa. E in questa Sciabola troviamo un po' di tutto, il dialogo "filosofico", la prosa della "tromba vuota" delle ore non lavorative e dell'autoosservazione schizoide, e infine, e soprattutto, i versi, dalla filastrocca, nonsense semantico della "nasità", alla "sciabola residuo di guerra", "fede e misura". C'è perfino l'aggiunta didascalico-prutkoviana, il duplice scarto finale in direzione del fittizio Prutkov e del suo sogno, fittizio al quadrato.



DANIIL CHARMS (Juvačëv, 1905-1942) fa parte del gruppo leningradese Oberiu (Ob "edinenie real'nogo iskusstva, Unione dell'arte reale).
Con lui nel gruppo sono Aleksandr Vvedenskij e Nikolaj Olejnikov, e, per un breve periodo, i più noti Konstantin Vaginov e Nikolaj Zabolockij. Charms è poeta sulla linea filosofica e verbale chlebnikoviana e autore di mini-racconti dell'assurdo, nonché di un unico dramma rappresentato un'unica volta Elizaveta Bam. Come anche Vvedenskij, è arrestato e "ingiustamente represso" (1940-41).


Questo testo [è tratto] da: "Neue Russische Literatur", Almanach 2-3, 1979-80, pp. 135-138 (publ. D. Urmana, pred. E. Etkinda).

                                                                            Traduzione e nota di Rosanna Giacquinta

[Questo testo, uscito sul n. 2 di Tèchne, 1988, pp. 9-25, con il testo originale a fronte, è stato poi inserito nel libro di Daniil Charms Casi, sempre a cura di Rosanna Giacquinta, Adelphi, Milano, 1990, pp. 251-257.]


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