di Anna Busetto Vicari Dei vari materiali la carta è uno di quelli a più rapida accensione e combustione: quando la si butta la su un fuoco un po’ mogio, quello si ravviva e avvampa con un guizzo allegro e senza sostanza. Ci sono molti modi per eliminare un libro, ma sono molto più
lenti e molto meno igienici del bruciarlo. Carlo Dossi, ne propose alcuni
divertenti: in un’epoca in cui pare ci fosse poco commercio
di libri, a causa della brutta abitudine tra le signore del prestarseli
invece che comprarseli, suggeriva di impiegare i libri, oltre che per la
lettura, in altri usi che ne affrettassero la distruzione: “proporrei quindi
di far stampare i libri in carta da cesso, in modo che collocati nelle
latrine si possano i libri strappare foglio a foglio o svolgerli a pezzi
da rotoletti. Così pure, si potrebbero stampare in carta da profumi,
da accendere, da sigaretta ecc.” (1).
Ci sono tanti motivi, dunque, per bruciare i libri, tra cui quello di ottemperare a un moderno principio salutistico; e mi stupisco davvero che nel terzo millennio ancora si dorma con i libri in camera, o si obblighino i giovani a soggiornare per ore in luoghi insalubri come le biblioteche, che da sempre sono paragonate a dei cimiteri: “Un libro che va a prendere il suo posto nello scaffale è il feretro che se ne scende sottoterra” ( 2) e anche, come scrive Cavazzoni, sognandosi un bell’incendio, “la biblioteca è un luogo pieno di morti che non si dan pace. Non c’è la serenità minerale del trapasso all’inorganico. Non è carta quella disposta in fila ordinata e in volumi entro le teche. Sono anime. Anime piene di speranza di vivere e di risorgere. Ma se qualcuna ogni tanto e per breve tempo risorge, nel senso che il libro viene richiesto, sfogliato e, per così dire, rianimato… e qui bisogna precisare che le resurrezioni possono essere deboli, ossia di pochi minuti, di poche ore; dopo di che il libro rimuore, viene restituito e riadagiato, senza che abbia veramente ripreso vita. Ossia è falso che ci sarà la resurrezione garantita, generale e completa, anche se ogni libro ha costituzionalmente questa fede” (3). E anche le biblioteche personali non sono un’invenzione tanto allegra: scrive Gabriel Zaid, partendo dal presupposto che “quasi tutti i libri diventano obsoleti dal momento in cui vengono scritti, se non prima”, che “la formazione di biblioteche obsolete per i figli si giustifica come il preservare le rovine: per ragioni puramente archeologiche” (4 ). Ma uno scrittore che sogna un bell’incendio di libri - non solo Cavazzoni - si presume che sia una persona per bene, e anche dotata di coscienza, e dunque, quando finisce un libro e lo dà alle stampe, è probabile che sia assalito da un qualche sentimento di colpevolezza, che - dicono - dovrebbe distinguere uno scrittore da un non-scrittore. Il non-scrittore, infatti, non essendo mai assalito da questo sentimento, pubblica libri in continuazione, con grande soddisfazione personale e cercando di convincere gli altri dell’assoluta necessità del suo libro. Questi non-scrittori sono bene descritti da Cervantes nel Don Chisciotte: “Ci sono alcuni che compongono e sfornano libri come fossero frittelle”, e l’affermazione si incrocia utilmente con un'altra, che trova affinità tra la vita dei libri e quella dei cibi, del cinese Lu Hsün: “Effettivamente appiccar fuoco è spaventoso, eppure è forse più interessante del cuocere… Per quanto eccellente un cuoco o un accenditore di lampade non ha assolutamente nessuna prospettiva di diventare famoso nella società. Invece Ch‘ n Shih Huang, per aver bruciato i libri, gode ancora oggi di una tal fama, da essere citato come precedente dei roghi di Hitler” (5). I libri stampati sono cucinati, composti e offerti ai lettori, dal palato più o meno fine, che li trangugiano o li spizzicano, o li buttano nella spazzatura - se dopo un po’ diventano indigesti - ed è inutile, per qualcuno, trattenerli, ricordarli e catalogarli. Allora, sempre rimanendo nell’ambito dei processi digestivi, meglio
sarebbe evacuarli, che è l’unico spontaneo atto di eliminazione
che l’uomo compie da sempre, dato che a più d’uno, è anche
venuto in mente di mangiarli, come lo scrivano Johann Ernst Biren che cominciò
assaggiando della semplice carta bianca, ma siccome non ne era soddisfatto
passò alla carta scritta. “In qualche modo come chi passasse dal
riso al burro al risotto coi funghi” (6).
Quella di mangiare i libri è, in effetti, un’attività insana antichissima, visto che già se ne parla nell’Antico Testamento, ma in quel caso, e in quei tempi, i libri come sono oggi non esistevano, casomai dei rotoli, che alcuni profeti mangiavano, con più o meno piacere, considerandoli la parola di Dio. Ma chi ama mangiare i libri stia attento a non addentare il libro d’amianto, inventato da un nemico dell’animo umano per scongiurarne la scomparsa: un libro condannato a un’immobile eternità, né distruttibile né modificabile (7). Però, bisogna dire che tutte queste gozzoviglie sono attività faticose e lente, come lo è ogni digestione di qualcosa che è in sovrabbondanza. Perché non c’è dubbio che il libro sia davvero qualcosa di corporeo, e dunque possiamo immaginare che per il filologo masticare e digerire un intero corpus… non sia cosa da poco, e alla fine lo si potrebbe anche accusare di cannibalismo. E quando qualcuno ci dice che il tal libro era così bello che l’ha divorato potremmo sospettare, come minimo, che alla lettura sia seguito un fastidioso rallentamento delle attività intestinali. C’è da sperare che abbia almeno lasciato la “costola”, per scongiurare un’ulcera gastrica. È così corporeo il libro, come ben sanno i bibliomani che ne sono posseduti, che forse, per eliminarlo, andrebbe usato il forno crematorio, anche se di questi tempi, il riciclo della carta è in effetti la cosa più civile che si possa praticare: “Il tuo libro è una fibra della carta che turbina nelle strade, che si accumula nelle pattumiere del pianeta. È cellulosa e cellulosa tornerà” (8). Speriamo… Ma è innegabile che un bell’incendio ha una sua grandiosa bellezza, oltreché suggestiva leggerezza, e in più sostituisce e amplifica in modo stupefacente l’attività digestiva dei nostri succhi gastrici. Rimane il fatto che la nostra storia è fatta di roghi reali e immaginari di libri: ma i primi sono quasi sempre l’opposto dei secondi. Quelli reali sono condannati dall’opinione comune - segnano la fine di una storia e l’inizio di un’altra: “bruciare libri e erigere fortificazioni è compito comune dei principî” (9); sono ispirati a un principio di utilità, che però li rende del tutto vani, “perché un libro come si deve rimanda sempre altrove e fuori” dopodiché “si sente solo la risata silenziosa dei libri bruciati” (10). Quelli immaginari, invece, sono più interessanti, perché hanno a che fare con le aspirazioni della nostra (in)coscienza, che all’utile non si è mai interessata, come quella di Hanta distruttore-creatore di libri, che dice: “io so come dovevano essere ancor più belli i tempi in cui tutto il pensiero era iscritto soltanto nella memoria umana, quella volta se qualcuno avesse voluto pressare libri avrebbe dovuto pressare teste umane, ma anche questo non sarebbe servito a nulla, perché i pensieri veri provengono da fuori, accanto all’uomo, sono come tagliolini in una gavetta. Quando gli occhi mi capitano su un libro come si deve, quando rimuovo le parole stampate, del testo anche qui non restano che pensieri immateriali, i quali svolazzano per l’aria, poggiano sull’aria, dell’aria sono nutriti e nell’aria ritornano, perché tutto in fin dei conti è aria, così come contemporaneamente nell’ostia santa il sangue c’è e non c’è” (11). A volte, poi, sono i libri stessi a fare ciò che noi non osiamo fare: lo hanno fatto, ad esempio, nell’Unico Libro di Chlébnikov: Io vidi che le nere Vede,
Peccato che quello sia stato un atto troppo simbolico, dovuto a una di quelle aspirazioni universali di cui spesso, poi, non rimane che fumo, mentre sono molto più utili le pratiche di igiene quotidiana. Però, se dovesse capitare un caso in cui i libri, per seri motivi di salute o anche per una semplice “slegatura”, non riescono a camminare da soli, allora tornerebbe utile l’esortazione di Robert Graves: Va a prendere il tuo libro
Ma oltre che farci prendere dal fascino dei roghi che hanno fatto o
volevano fare delle proprie opere straordinari scrittori combustori come
Virgilio, Gogol e Kafka, lasciamoci all’ammirazione per i propositi di
scrittori nostrani, dei quali ci si dimentica troppo facilmente, uno dei
quali è Sinisgalli: “dobbiamo buttare al fuoco gli abbozzi, gli
spunti, le improvvise illuminazioni. Dopo l’infanzia comincia l’inferno
per il poeta… allora tutto quello che ha scritto sarà un carnet
da buttare alle fiamme (14).
Anche Zavattini, che veniva da una regione notoriamente generosa di stramberie, aveva però un’analoga lucidità: “appena sotto la penna spunta qualcosa che sa di libro scaracchio, cancello” (16). Perché in questa nostra epoca tutto ciò che è scritto viene conservato e il rischio quindi è che di noi rimanga proprio TUTTO. E questa permanenza è garantita dalla tecnologia che offre sistemi veloci e leggeri per trasportare ovunque, nello spazio e nel tempo, le nostre opere e il nostro passato, e dalla nostra smania irrefrenabile di dare un valore a qualsiasi cosa esterna a noi, alle tracce della nostra esistenza, ai documenti. Così in letteratura si assiste a un mercato sovreccitato di autografi e inediti, perlopiù volutamente abbandonati dai loro autori, e che noi spesso vogliamo togliere dall’oblio. La giustificazione è quella che bisogna conoscere tutto, soprattutto ciò che è fra le righe. La comparazione filologica si è sempre servita di questo, ma per produrre dell’altro; noi sembriamo servircene per timore che qualcosa ci sfugga, per un’ansiosa esigenza di ordine. Tutti quanti siamo, ormai, dei grandi ordinatori, come le macchine che ci consentono di farlo. Allora, accade che da archivi pubblici e casse di famiglia, ad opera di appassionati e solerti curatori, si compongano in un solo grande ordine lettere che alludono a molteplici storie, idee, progetti. Càpita spesso che tutte insieme siano composte in un solo volume, la cassa definitiva, da cui difficilmente usciranno ancora: ormai sistemate e debitamente glossate, saranno riesumate per sostenere una postilla, magari, ma non per i posteri. All’abilità di classificatori dovremmo affiancare forse quella di inventori, oppure, in alcuni casi, quell’altra, opposta, rara e preziosa, di segretari, che non volendo approfittare per se stessi di un piccolo caso, saprebbero, appunto, ben custodire il segreto, lasciandolo lì dov’è. Ma vogliamo vedere sempre cosa c’è dietro a ogni cosa: conoscere la preparazione del grande film, della grande rappresentazione, della grande opera musicale, letteraria, e d’arte in genere. Vogliamo definire ogni principio d’immaginazione, catalogandolo e sottoponendolo a critica. Non si raggiungerà mai la visibilità assoluta di tutto ciò: a proposito di come si organizzi e si esprima una versione, piuttosto che un’altra, è ben detto da Douglas R. Hofstadter: “Ma egli (lo scrittore) sa da dove tutto ciò proviene? Solo vagamente. La maggior parte della sua fonte, come un iceberg, è immersa profondamente sott’acqua, non visibile, ed egli lo sa” (17). Ed è altrettanto ben detto da Manganelli: “L’autore non sa, non deve sapere sul suo lavoro neppure quanto ne sanno gli altri, poiché del suo lavoro sa solo che è un ordigno, fabbricato secondo le regole, uniche e inderogabili, con cui si fabbricano gli ordigni: ma egli ignora affatto in quali attentati, da quali mani, verrà lanciato questo esplosivo inesauribile” (18). Allora, noi superalfabetizzati non potremmo smettere, per un po’, di prenderci alla lettera, ordinando il mondo e scrivendone il nome, tanto che i loculi dei cimiteri sono pari alle nostre classificazioni: qui giace A. B. (e Josè Bergamin avrebbe volentieri continuato con tutte le lettere di tutti gli alfabeti) (19). Ciò che giace è a portata di mano e permane, ed è morto: “Scripta manent verba volant”: l’abbiamo sempre interpretata all’incontrario, per supportare i nostri ordini giuridici, le nostre imposizioni al mondo. Ogni parola nome di una cosa
La biblioteca di Alessandria arse,
Ogni orologio che fa l’orologiaio
Che è la poetica descrizione fatta da Rodolfo J. Wilcock delle attività cimiteriali a cui ogni uomo è condannato nella vita reale. E poi, per fortuna, abbiamo anche Gianni Celati che ci ricorda sempre che “tutto ciò che si scrive è già polvere nel momento stesso in cui viene scritto, ed è giusto che vada a disperdersi con le altre polveri e ceneri del mondo. Scrivere è un modo di consumare il tempo, rendendogli l’omaggio che gli è dovuto: lui dà e toglie e quello che dà è solo quello che toglie, così la sua somma è sempre lo zero, l’insostanziale. Noi chiediamo di poter celebrare questo insostanziale, il vuoto, e l’ombra, l’erba secca, le pietre dei muri che crollano e la polvere che respiriamo” (21 ). E, dunque, se noi immaginassimo di non avere un bel niente da imporre, magari, potrebbe capitare che le parole, liberate (per un po’) del piombo tipografico, potrebbero ritornare a circolare più leggere e noi, forse, sapremmo anche dirle meglio? Così, come le ha dette benissimo, molto tempo fa, l’inascoltato Antonio Delfini, nelle sue Cronache dell’Accademia degli Informi: “La vera letteratura mira al silenzio, cioè all’essenziale. Non
equivochiamo: è essenziale anche la testimonianza, la rappresentazione
(il romanzo, il poema), mentre può non esserlo l’immaginazione rarefatta
e distillata di certa prosa perversa e disossata di triste e non lontana
esperienza. Se non abbiamo male interpretato l’Accademia degli Informi
reagisce alla spicciola utilizzazione dell’ingegno, alla sua concezione
compiuta dell’opera, all’ottimismo oggi vigente per cui il movimento interiore
si arresta soddisfatto davanti all’impegno concreto del libro, senza ombra
di dubbi, senza insinuare un minimo spazio al rifiuto. In vista dell’inevitabile
grande falò del prodotto di un tal genio a poco prezzo, questo invito
alla riduzione è l’hallali della coscienza letteraria ritrovata
nel momento culminante dell’orgia” (22).
SPUNTI 1. Carlo Dossi, Note azzurre, a cura di Dante Isella, Adelphi,
1964.
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