ISTRUZIONI PER SCENDERE DAL LETTO
Quando si sta per scendere dal
letto, bisogna fare molta attenzione. Non si possono lasciare bambini o cani
sciolti e i mobili devono essere in ordine, perché scendere è molto pericoloso.
È necessario che il luogo sia ben sgombro, bisogna togliere lampade, armadi,
tavoli e tutti quegli inutili oggetti che si mettono nelle case per sfuggire al
vuoto. Perciò avverto con molto anticipo. Dico, per esempio: «Domani scendo dal
letto, attenti. Scenderò alle nove e cinque minuti. Sincronizzate gli orologi,
assicurate la mobilia, agganciate le cinture». Scelgo sempre un'ora con cinque
minuti di scarto, perché nessuno è in grado di essere puntuale se non ha cinque
minuti di tolleranza. Mi preparo bene, per scendere. Fin
dal giorno precedente son preso da tutte quelle minuziose pratiche di cui non
si può non tener conto per una buona discesa. In primo luogo faccio mettere un
cartello alla porta perché nessuno mi disturbi. Il cartello avvisa con
esattezza sul giorno e 1'ora della mia discesa e prega che nessuno mi importuni
perché potrebbe disturbare i miei piani, interrompere i miei preparativi. Devo
essere molto concentrato per scendere e, allo stesso tempo, rilassato, per
evitare qualsiasi incidente. Prima di scendere studio bene 1'area
della stanza, cerco di memorizzare il posto occupato dagli oggetti - che dovrò
fronteggiare una volta raggiunto il pavimento. In una delle pareti, per
esempio, c'è una finestra. Sebbene molte volte abbia cercato di murarla, la
cosa non è fattibile, mi è stato detto, perché lo vieta una disposizione
municipale. E io sono molto rispettoso degli ordinamenti su cui si regge la
nostra convivenza, perché senza di essi ci sarebbero molti più pericoli di
quanti non ce ne siano già. Devo quindi tener conto della finestra, per
scendere. Non è una finestra qualunque: si trova nella parte superiore della
parete, su un piano inclinato rispetto al soffitto. Di li entra, né di più né
di meno, la luce che riesco a sopportare. La gente è tanto disordinata in fatto
di luce (come pure in altre cose): o illuminano troppo (temendo forse
l'ambiguità delle ombre) o stanno al buio (hanno orrore della luce che potrebbe
rischiarare contorni detestati). D'estate, però, si buttano ovunque (nella
sabbia sporca, nei giardini rachitici, lungo mari contaminati) e lasciano che
il sole bruci loro la pelle facendone appassire i tessuti superficiali, che si
raggrinzano per la disidratazione. (Da lontano sembra di vedere una compatta
famiglia di granchi, una massa rossastra di membra contorte e di movimenti
confusi). La finestra, quando scendo, dev' essere chiusa, perché una minima
corrente d'aria potrebbe risultare molto pericolosa per la salute. Ho una pianta
che mi consente di studiare bene la disposizione dei diversi oggetti che ci
sono nell' appartamento, in modo da poter decidere i miei movimenti con
esattezza, senza essere esposto a spiacevoli sorprese. C'è un armadio, ad
esempio, sulla cui utilità non è il caso di discutere ora, che ha un'anta a
specchio: se non lo evito, in qualsiasi momento mi ci potrei riflettere, a
tradimento, trovandomi di fronte un individuo in cui non mi riconosco. Devo
muovermi per la stanza, quindi, evitando lo specchio. Altro problema è il tappeto: mitiga il freddo del pavimento, indubbiamente, ma ha un'oscura
tendenza a formare delle pieghe e devo spostarmi con cautela, per non
inciampare. (E inoltre possibile che formiche o altri minuscoli insetti si
annidino nelle sue rughe o pretendano di arrampicarsi sulle mie scarpe. Siamo
molto poco informati sui desideri degli animali). Le prese elettriche
rappresentano, poi, un inconveniente supplementare. Si sa che se per errore o
per caso uno infila le dita nella presa, riceve una scarica talvolta mortale.
Ebbene, per ragioni inspiegabili, le prese sono collocate sulle pareti all'
altezza delle mani e senza protezione alcuna. Pur
avendo preso tutti gli accorgimenti del caso, scendere non è sempre un'impresa
facile. A volte mi assalgono improvvisi timori. Ho paura di abbandonare il
letto, la protezione delle lenzuola, la posizione orizzontale o inclinata.
Sicché mi rifiuto di scendere. So che a terra dovrò stare in piedi, salutare le
persone, parlare di questo e di quello. Se ho annunciato che scendo e poi,
quando è arrivato il momento di farlo, non me la sento, è ancora peggio, perché
allora mia madre o mia sorella o mio zio o un'amica vengono a chiedermi che
cosa succede. Cercano di farmi coraggio con parole accuratamente studiate e che,
proprio per questo, mi riempiono di spavento. Il fatto che qualcuno pretenda di
capire i miei timori, li rafforza, perché dimostra che sono reali, che i
pericoli esistono. Se qualcuno per esempio mi dice: «Scendi caro, ho tolto
tutti i mobili dal passaggio» io inorridisco pensando I che, di fatto, avrei potuto sbatterei contro (e non posso essere
sicuro che siano stati tolti tutti completamente). Se mia sorella si avvicina
al letto e mi dice con gran tenerezza: «Ti aiuto a scendere. Lo faremo
lentamente, molto lentamente», io mi contraggo tutto, indietreggio, mi
nascondo fra le lenzuola: nella gentilezza con cui mi offre aiuto riconosco una
sufficienza, un senso di superiorità che mi fanno inorridire. L'apparente
facilità con cui loro hanno risolto il problema di scendere dal letto (lo fanno
tutti i giorni come se fosse la cosa più naturale del mondo) non mi incute
rispetto né suscita invidia: fin dalla più remota
antichità gli esseri umani hanno compiuto con perfetta naturalezza le azioni
più nefande (la naturalezza è nemica della coscienza). A nulla mi serve
il loro esempio. In genere un uomo non inciampa mai due volte nella stessa
pietra: né lui né la pietra sono più gli
stessi la seconda volta. Sicché non mi incoraggia neppure mia madre quando mi
dice: «Scendi caro, ricordi come è stato
semplice l'ultima volta? Anche allora avevi paura, eppure non è successo nulla di grave». Naturalmente:
basta che succeda una volta. Ammalati si può essere molte volte, ma per morire
ne basta una sola. Quando riesco a scendere, la prima
sensazione che provo è di allegria: sono molto orgoglioso di avercela fatta. Mi
sembra di aver superato me stesso. Allora, mi piace che ci sia gente intorno
per festeggiare, ma non troppa: un affollamento nella stanza scompiglierebbe del
tutto i minuziosi programmi che ho destinato a quel momento. Possono
applaudirmi e salutarmi da lontano, mentre io, con cautela, appoggio prima un
piede e poi 1'altro sul pavimento. Presto, l'allegria scompare: per terra la
vita è molto difficile. In primo luogo gli uomini stando tutti in piedi si
sentono simili e questo li rende molto ostili fra loro. La rivalità, aumenta.
Per esempio: quando sono nel letto, nessuno mi chiama in causa: si misurano tra
di loro, come se io fossi un oggetto fra tanti, un lume o un armadio. Decidono,
passano ai fatti, prescindendo del tutto da me, il che mi risparmia il dolore
delle loro aggressioni, delle loro ostilità. Non intervengo né per gli uni, né
per gli altri. Invece se sono in piedi (sebbene io non resti mai troppo a lungo
in quella scomoda posizione), avverto i loro sguardi (non tutti benevoli, devo
dire), ascolto le loro liti, il trambusto della casa giunge fino a me coi suoi
echi inquietanti. Quando scendo, non posso fare a meno
di gettare uno sguardo al tratto di strada che si intravede dalla finestra del
soggiorno. Vedo passare automobili molto veloci, che mentre fanno segnalazioni
con i fari si dirigono da qualche parte. Si fermano - ordinatamente - a un
semaforo rosso e poi, tutte nello stesso tempo, si rimettono in marcia,
impadronendosi della strada. (Nei miei incubi un semaforo enorme dà il segnale
di partenza e le auto, con potenti mandibole rutilanti, si lanciano, maschere
metalliche, senza guida, condotte da comandi invisibili). I guidatori si
sentono molto potenti. I passanti li trovo più simpatici, anche se non riesco a
capire dove vadano, perché si incrocino senza fermarsi, senza salutarsi, come
formiche o delfini. Ho visto anche persone in uniforme: portinai, guardie,
lift, impiegati vari. Ognuno serissimo nella sua uniforme, nel suo ruolo, senza
confondersi, come se fosse molto naturale. Ho chiesto a mia madre se la gente
non dubita mai, in ascensore, prima di premere un bottone. Se sanno sempre
esattamente quale schiacceranno. Se non hanno un attimo di esitazione. Mi ha
risposto di no, che questo non succede, e se capita, si tratta solo di qualcuno
che non ci vede bene. I conducenti degli autobus, per esempio, non deviano dal
loro percorso. Lo ripetono diligentemente, senza variazioni: non si infilano di
sorpresa in un parco e nemmeno guidano l'autobus verso il molo, per dare un'
occhiata al mare. È pure sorprendente come l'uomo della gru ripeta lo stesso
movimento parsimonioso (zolle nere che si sollevano adagio, come colpe
difficili da estirpare), alzi la gran pala di ferro e poi la faccia scendere
con lentezza, la affondi nel mucchio, la carichi bene, poi la sollevi e
depositi il carico nel camion, senza provare il desiderio di giocare, di
descrivere orbite nell' aria, di caricare qualcosa di diverso. Lo spettacolo della strada mi turba
e mi impaurisce, sicché smetto subito di guardare. I miei soggiorni per terra non
durano, quindi, molto tempo. Sebbene il medico insista che mi conviene
scendere, per la tensione muscolare e per la circolazione sanguigna, so che
farlo non giova al mio spirito. Confuso e in preda all' angoscia, torno a letto
rapidamente. Li mi rannicchio fra le lenzuola, riparato e protetto. Per un po'
nessuno si ricorderà di me, fino alle ore dei pasti o delle pulizie e questo
come se fossi un pupazzo rotto, un ingranaggio guasto. Un manichino sfasciato.
Peraltro, né coricato né in piedi, il mondo sembra sensibile alla nostra
partecipazione, nonostante ci si prodighi in febbrili movimenti per dimostrare
il contrario. Sarà, sempre, un mondo estraneo. Fonte: Cristina Peri Rossi,
«Istruzioni per scendere dal letto», in Il
Museo degli Sforzi Inutili, traduzione di Vittorio Spada, Einaudi, Torino,
1990, pp. 86-91.
Cristina Peri Rossi [1941] è scrittrice, poetessa e traduttrice
uruguaiana. Fra i suoi libri tradotti in italiano: Il museo degli sforzi inutili (Einaudi 1990) e Le difficoltà dell’amore (La Tartaruga 2006).
Il testo è compreso
nel N° 22 della rivista, scaricabile gratuitamente in formato PDF cliccando qui.
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