pagina di Tèchne di Paolo Albani

Cristina Peri Rossi
ISTRUZIONI PER SCENDERE DAL LETTO

 
 
 

            Quando si sta per scendere dal letto, bisogna fare molta attenzione. Non si possono lasciare bambini o cani sciolti e i mobili devono essere in ordine, perché scendere è molto pericoloso. È necessario che il luogo sia ben sgombro, bisogna togliere lampade, armadi, tavoli e tutti quegli inutili oggetti che si mettono nelle case per sfuggire al vuoto. Perciò avverto con molto anticipo. Dico, per esempio: «Domani scendo dal letto, attenti. Scenderò alle nove e cinque minuti. Sincronizzate gli orologi, assicurate la mobilia, agganciate le cinture». Scelgo sempre un'ora con cinque minuti di scarto, perché nessuno è in grado di essere puntuale se non ha cinque minuti di tolleranza.

            Mi preparo bene, per scendere. Fin dal giorno precedente son preso da tutte quelle minuziose pratiche di cui non si può non tener conto per una buona discesa. In primo luogo faccio mettere un cartello alla porta perché nessuno mi disturbi. Il cartello avvisa con esattezza sul giorno e 1'ora della mia discesa e prega che nessuno mi importuni perché potrebbe disturbare i miei piani, interrompere i miei preparativi. Devo essere molto concentrato per scendere e, allo stesso tempo, rilassato, per evitare qualsiasi incidente.

            Prima di scendere studio bene 1'area della stanza, cerco di memorizzare il posto occupato dagli oggetti - che dovrò fronteggiare una volta raggiunto il pavimento. In una delle pareti, per esempio, c'è una finestra. Sebbene molte volte abbia cercato di murarla, la cosa non è fattibile, mi è stato detto, perché lo vieta una disposizione municipale. E io sono molto rispettoso degli ordinamenti su cui si regge la nostra convivenza, perché senza di essi ci sarebbero molti più pericoli di quanti non ce ne siano già. Devo quindi tener conto della finestra, per scendere. Non è una finestra qualunque: si trova nella parte superiore della parete, su un piano inclinato rispetto al soffitto. Di li entra, né di più né di meno, la luce che riesco a sopportare. La gente è tanto disordinata in fatto di luce (come pure in altre cose): o illuminano troppo (temendo forse l'ambiguità delle ombre) o stanno al buio (hanno orrore della luce che potrebbe rischiarare contorni detestati). D'estate, però, si buttano ovunque (nella sabbia sporca, nei giardini rachitici, lungo mari contaminati) e lasciano che il sole bruci loro la pelle facendone appassire i tessuti superficiali, che si raggrinzano per la disidratazione. (Da lontano sembra di vedere una compatta famiglia di granchi, una massa rossastra di membra contorte e di movimenti confusi). La finestra, quando scendo, dev' essere chiusa, perché una minima corrente d'aria potrebbe risultare molto pericolosa per la salute. Ho una pianta che mi consente di studiare bene la disposizione dei diversi oggetti che ci sono nell' appartamento, in modo da poter decidere i miei movimenti con esattezza, senza essere esposto a spiacevoli sorprese. C'è un armadio, ad esempio, sulla cui utilità non è il caso di discutere ora, che ha un'anta a specchio: se non lo evito, in qualsiasi momento mi ci potrei riflettere, a tradimento, trovandomi di fronte un individuo in cui non mi riconosco. Devo muovermi per la stanza, quindi, evitando lo specchio. Altro problema è il tappeto: mitiga il freddo del pavimento, indubbiamente, ma ha un'oscura tendenza a formare delle pieghe e devo spostarmi con cautela, per non inciampare. (E inoltre possibile che formiche o altri minuscoli insetti si annidino nelle sue rughe o pretendano di arrampicarsi sulle mie scarpe. Siamo molto poco informati sui desideri degli animali). Le prese elettriche rappresentano, poi, un inconveniente supplementare. Si sa che se per errore o per caso uno infila le dita nella presa, riceve una scarica talvolta mortale. Ebbene, per ragioni inspiegabili, le prese sono collocate sulle pareti all' altezza delle mani e senza protezione alcuna.

            Pur avendo preso tutti gli accorgimenti del caso, scendere non è sempre un'impresa facile. A volte mi assalgono improvvisi timori. Ho paura di abbandonare il letto, la protezione delle lenzuola, la posizione orizzontale o inclinata. Sicché mi rifiuto di scendere. So che a terra dovrò stare in piedi, salutare le persone, parlare di questo e di quello. Se ho annunciato che scendo e poi, quando è arrivato il momento di farlo, non me la sento, è ancora peggio, perché allora mia madre o mia sorella o mio zio o un'amica vengono a chiedermi che cosa succede. Cercano di farmi coraggio con parole accuratamente studiate e che, proprio per questo, mi riempiono di spavento. Il fatto che qualcuno pretenda di capire i miei timori, li rafforza, perché dimostra che sono reali, che i pericoli esistono. Se qualcuno per esempio mi dice: «Scendi caro, ho tolto tutti i mobili dal passaggio» io inorridisco pensando I che, di fatto, avrei potuto sbatterei contro (e non posso essere sicuro che siano stati tolti tutti completamente). Se mia sorella si avvicina al letto e mi dice con gran tenerezza: «Ti aiuto a scendere. Lo faremo lentamente, molto lentamente», io mi contraggo tutto, indietreggio, mi nascondo fra le lenzuola: nella gentilezza con cui mi offre aiuto riconosco una sufficienza, un senso di superiorità che mi fanno inorridire. L'apparente facilità con cui loro hanno risolto il problema di scendere dal letto (lo fanno tutti i giorni come se fosse la cosa più naturale del mondo) non mi incute rispetto né suscita invidia: fin dalla più remota antichità gli esseri umani hanno compiuto con perfetta naturalezza le azioni più nefande (la naturalezza è nemica della coscienza). A nulla mi serve il loro esempio. In genere un uomo non inciampa mai due volte nella stessa pietra: né lui né la pietra sono più gli stessi la seconda volta. Sicché non mi incoraggia neppure mia madre quando mi dice: «Scendi caro, ricordi come è stato semplice l'ultima volta? Anche allora avevi paura, eppure non è successo nulla di grave». Naturalmente: basta che succeda una volta. Ammalati si può essere molte volte, ma per morire ne basta una sola.

            Quando riesco a scendere, la prima sensazione che provo è di allegria: sono molto orgoglioso di avercela fatta. Mi sembra di aver superato me stesso. Allora, mi piace che ci sia gente intorno per festeggiare, ma non troppa: un affollamento nella stanza scompiglierebbe del tutto i minuziosi programmi che ho destinato a quel momento. Possono applaudirmi e salutarmi da lontano, mentre io, con cautela, appoggio prima un piede e poi 1'altro sul pavimento. Presto, l'allegria scompare: per terra la vita è molto difficile. In primo luogo gli uomini stando tutti in piedi si sentono simili e questo li rende molto ostili fra loro. La rivalità, aumenta. Per esempio: quando sono nel letto, nessuno mi chiama in causa: si misurano tra di loro, come se io fossi un oggetto fra tanti, un lume o un armadio. Decidono, passano ai fatti, prescindendo del tutto da me, il che mi risparmia il dolore delle loro aggressioni, delle loro ostilità. Non intervengo né per gli uni, né per gli altri. Invece se sono in piedi (sebbene io non resti mai troppo a lungo in quella scomoda posizione), avverto i loro sguardi (non tutti benevoli, devo dire), ascolto le loro liti, il trambusto della casa giunge fino a me coi suoi echi inquietanti.

            Quando scendo, non posso fare a meno di gettare uno sguardo al tratto di strada che si intravede dalla finestra del soggiorno. Vedo passare automobili molto veloci, che mentre fanno segnalazioni con i fari si dirigono da qualche parte. Si fermano - ordinatamente - a un semaforo rosso e poi, tutte nello stesso tempo, si rimettono in marcia, impadronendosi della strada. (Nei miei incubi un semaforo enorme dà il segnale di partenza e le auto, con potenti mandibole rutilanti, si lanciano, maschere metalliche, senza guida, condotte da comandi invisibili). I guidatori si sentono molto potenti. I passanti li trovo più simpatici, anche se non riesco a capire dove vadano, perché si incrocino senza fermarsi, senza salutarsi, come formiche o delfini. Ho visto anche persone in uniforme: portinai, guardie, lift, impiegati vari. Ognuno serissimo nella sua uniforme, nel suo ruolo, senza confondersi, come se fosse molto naturale. Ho chiesto a mia madre se la gente non dubita mai, in ascensore, prima di premere un bottone. Se sanno sempre esattamente quale schiacceranno. Se non hanno un attimo di esitazione. Mi ha risposto di no, che questo non succede, e se capita, si tratta solo di qualcuno che non ci vede bene. I conducenti degli autobus, per esempio, non deviano dal loro percorso. Lo ripetono diligentemente, senza variazioni: non si infilano di sorpresa in un parco e nemmeno guidano l'autobus verso il molo, per dare un' occhiata al mare. È pure sorprendente come l'uomo della gru ripeta lo stesso movimento parsimonioso (zolle nere che si sollevano adagio, come colpe difficili da estirpare), alzi la gran pala di ferro e poi la faccia scendere con lentezza, la affondi nel mucchio, la carichi bene, poi la sollevi e depositi il carico nel camion, senza provare il desiderio di giocare, di descrivere orbite nell' aria, di caricare qualcosa di diverso.

            Lo spettacolo della strada mi turba e mi impaurisce, sicché smetto subito di guardare.

            I miei soggiorni per terra non durano, quindi, molto tempo. Sebbene il medico insista che mi conviene scendere, per la tensione muscolare e per la circolazione sanguigna, so che farlo non giova al mio spirito. Confuso e in preda all' angoscia, torno a letto rapidamente. Li mi rannicchio fra le lenzuola, riparato e protetto. Per un po' nessuno si ricorderà di me, fino alle ore dei pasti o delle pulizie e questo come se fossi un pupazzo rotto, un ingranaggio guasto. Un manichino sfasciato. Peraltro, né coricato né in piedi, il mondo sembra sensibile alla nostra partecipazione, nonostante ci si prodighi in febbrili movimenti per dimostrare il contrario. Sarà, sempre, un mondo estraneo.

 

 

 

Fonte: Cristina Peri Rossi, «Istruzioni per scendere dal letto», in Il Museo degli Sforzi Inutili, traduzione di Vittorio Spada, Einaudi, Torino, 1990, pp. 86-91.


Cristina Peri Rossi [1941] è scrittrice, poetessa e traduttrice uruguaiana. Fra i suoi libri tradotti in italiano: Il museo degli sforzi inutili (Einaudi 1990) e Le difficoltà dell’amore (La Tartaruga 2006).

   
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