Adriano Spatola
Che fine
ha fatto il surrealismo? È morto o vivo? E, se è vivo, sopravvive a se stesso o ha saputo trovare il
segreto di una continuità attiva e creatrice? Qui da
noi, comunque, notizie sul surrealismo è un pezzo che non ne arrivano. Eppure l'argomento non
dovrebbe aver persa nessuna delle sue ragioni d'interesse, se non altro perché
l'esistenza del gruppo surrealista che lavora a Parigi sta a testimoniare della
vitalità del movimento. Infatti,
se l'avanguardia storica ha visto in genere il proprio organismo patire un più
o meno totale sconvolgimento, oggi come oggi l'unica eccezione che confermi la
regola sembra essere il surrealismo. Si direbbe, in ogni caso, che non si sia
curato di rispettare lo stop imposto dalla seconda guerra mondiale e che anzi
in questi ultimi vent'anni abbia rimesso in gioco
tutte le sue carte, adeguandosi, con una prontezza di riflessi che dovrebbe
apparire significativa, alla nuova situazione. Gli
esempi a sostegno di questa tesi non mancano, e basterebbe pensare alla
perseveranza con cui il gruppo surrealista continua ad applicarsi all'azione
politica (Budapest, l'Indocina, l'Algeria) per avere un'idea abbastanza chiara
di come questo movimento per definizione rivoluzionario non si lasci sfuggire
nessuna occasione per dimostrare di non avere rinunciato ai suoi tentativi di trasformazione del mondo. E
tuttavia rispondere alle domande iniziali non è facile. Il fatto è che il
progressivo disfacimento dell'avanguardia storica come insieme di gruppi
organizzati era nei patti, non poteva meravigliare nessuno: casomai, meraviglia
il contrario. La presenza del surrealismo è dunque nella
situazione culturale contemporanea una fonte di perplessità, e si comincia a
capire perché storici anche seri ed obbiettivi della letteratura si siano
semplicemente rifiutati di prenderne allo, proprio come ci si rifiuta di
credere all'esistenza dei fantasmi. Se ci si è accordati
sulla scoperta dell'America come fine del Medioevo, perché non ci si dovrebbe
accordare sulla seconda guerra mondiale come limite estremo dell'avanguardia? Le date
di questo genere, dopotutto, non sono altro che degli strumenti, e sembra
inutile stare a sottilizzare troppo sulla loro opportunità: c'è sempre
un'enorme quantità di materiale fluido da solidificare e immobilizzare mediante
un ben dosato periodizzamento, sui limiti del quale si potranno poi magari
formulare delle riserve, ma che intanto appare indiscutibilmente utile, tanto
utile da mettere salde radici nella coscienza. Ora, per quanto riguarda il caso
particolare del surrealismo, questo sta proprio diventando un caso di coscienza
cattiva... Non dimentichiamoci infatti che dei quarant'anni
trascorsi dall'apparizione del Primo
Manifesto venti appartengono al dopoguerra, un'agonia troppo lunga per
essere davvero un'agonia, e che, se una fine del surrealismo c'è stata in
concomitanza con la pretesa fine dell'avanguardia, varrebbe ormai la pena di
parlarne non soltanto come di una morte, ma anche come di una resurrezione. Ai
surrealisti, d'altronde, la parola "resurrezione" non piacerebbe, dal
momento che la vitalità nel futuro del movimento è sempre apparsa garantita dai
robusti legami che l'idea ha avuto ed ha con il passato, con precursori come
Rimbaud, Lautréamont, Jarry o Sade: e cioè non con un determinato periodo
storico, ma con una vera
e propria dimensione dello spirito. Nemmeno resurrezione, dunque, ma
metamorfosi del surrealismo sulla base
del rispetto di una tradizione già consolidata. Se, come
scriveva qualcuno qualche anno fa, "alcuni dei valori tipici della rivolta
surrealista - la contestazione mediante l'humour, la rivendicazione dell'eros,
la lotta contro l'etica familiare, contro lo Stato ed i miti ufficiali - non
hanno perduta nessuna delle loro ragioni", allora l'osservatore
imparziale, mentre non potrà negare l'estremo interesse che la problematica
classica del surrealismo mantiene in un momento come quello che stiamo vivendo,
dovrà nello stesso tempo riconoscere una notevole carica positiva all'allargamento
di orizzonte che il surrealismo ha saputo attuare proprio nel dopoguerra fino a
fare rientrare nell'ambito dell'esperienza letteraria - con un'operazione
analoga a quella compiuta all'inizio nei riguardi della psicoanalisi - i motivi
della più recente ricerca antropologica (tanto per fare subito un esempio
macroscopico, tra i collaboratori del 1° n. di "VVV", la rivista
fondata a New York nel '42 da Breton, Duchamp, Ernst e David Hare, c'era
Lévi-Strauss con un saggio sui Fards
indiens). Evidentemente,
dunque, il surrealismo non si pone oggi come problema scontato, già risolto,
accantonabile. E questo perché non sono né accantonabili né già risolti né
scontati i problemi che il surrealismo ha posto. Nonostante
le voci interessate, il surrealismo non è morto né moribondo, non è un luogo comune, non è un'utopia
invecchiata troppo in fretta. Come in un gioco di scatole cinesi, invece, la
parola surrealismo apre una serie di prospettive, evoca subito una rete con la
quale si è tentato di imprigionare il mondo, e di liberarlo nello stesso tempo. Una
questione, dunque, da non risolvere con i dadi in mano, o seduti a un tavolo da
poker, ma che pretende, per la sua stessa natura, una buona dose di accortezza
critica. Proprio perché l'esigenza dei distinguo comincia a farsi sentire con
una certa urgenza, meglio fare attenzione alla strada che si imbocca, che non
porti a qualche vicolo cieco, a ripetere pigramente giudizi affrettati, o di
parte. Una cosa,
comunque, è chiara: qualsiasi ricerca tesa a restringere l'area di applicazione del
termine, a recuperare magari gli intoccabili, gli ostaggi, o a scommettere su
qualche vincente, sarà destinata al fallimento. Il surrealismo, infatti, lo si
può analizzare soltanto come "struttura di poetiche” - e struttura
complessa - e non come poetica tout court. Questa opinione di Jules Monnerot mi
sembra indispensabile tenerla sempre presente, e farne il punto di partenza di
ogni proposta di discussione. Solo così sarà possibile considerare il
surrealismo come il primo tentativo organico di risolvere contemporaneamente
gran parte, se non la totalità, delle contraddizioni e ambiguità
caratteristiche dell'avanguardia storica. L'esempio di
Picasso Allarghiamo
il discorso: da un punto di vista obbiettivo e privo di qualsiasi pregiudizio
non potranno non risultare incomprensibili certe posizioni di sospetto, di
cautela, di prudenza, che portano ad esempio a considerare Picasso come un
annesso "a viva forza” al movimento. D'accordo, è anche troppo facile rendersi conto
dell'abbaglio di Breton, quando pretendeva che perfino un quadro come Les demoiselles d'Avignon rientrasse
nell'ambito surrealista, ma è altrettanto ovvio che, almeno per un certo periodo,
Picasso ha dato un apporto originale (e, s'intende, personalissimo) al
surrealismo. Attribuzione, questa, che sono proprio gli anni intercorsi a
rendere lecita, e alla quale si può giungere, al di là delle polemiche
contingenti, mediante una pura e semplice analisi del materiale. Basterà
allora prendere la Natura morta del
'34. Si tratta di una composizione pseudoretorica (casco, lancia, panoplia) che tende alla mimesi grottesca dell'avvenimento
"guerra ", e che lo stesso Picasso ha definito
"surréaliste''. Vi si ritrova, deformata, l'immagine del minotauro che era
servita da copertina alla rivista omonima,
l'anno prima. Un uomo-toro, la mitologia, il passe-partout verso le regioni non
più soltanto del primitivo (l'arte negra scoperta agli inizi del secolo) ma
anche finalmente, come indispensabile dilatazione, verso quelle dell'inconscio
collettivo indoeuropeo. Picasso poi finirà col ritornare alle sue origini, per
ripetere certi suoi clichés. Ma il suo momentaneo décalage ha avuto e ha ancora
un senso: una deviazione nella storia di un artista conta molto per la storia
di un gruppo, se il gruppo, appunto, è "aperto" e, per definizione,
instabile, in continuo rinnovamento. A che
cosa è servita questa specie di disquisizione? Intanto, ha voluto essere un
campanello d'allarme per la faciloneria di certa critica; e, in secondo luogo, è
forse riuscita a indicare di che tipo può essere il rapporto (estremamente
libero) che al singolo è possibile instaurare con le idee di un gruppo. «Da
quando esiste una pittura surrealista» - scriveva Jean
Louis Bédouin - «si può dire che tutte le tendenze dell'espressione
plastica sono coesistite all'interno del surrealismo... La qualificazione
surrealista di un'opera non dipende da nessun criterio formale. Il surrealismo
non impone all'artista nessuna estetica particolare. Gli chiede al contrario di
essere il creatore di forme nuove, l'esploratore del mai visto». È da esempi e
affermazioni di questo genere che nasce il nostro programma di un'interpolazione parasurrealista del
materiale che avanguardia storica e neoavanguardia forniscono. Parasurrealismo
latente È senza
dubbio degno di nota il fatto che il gruppo surrealista francese continui la
sua attività e abbia la sua rivista ("La Brèche"); che Jean Louis
Bédouin, insieme ad altri, dia periodicamente i rendiconti di questo lavoro; che
Breton affermi di non avere ancora finito di avere ragione; che le idee
surrealiste si siano divulgate ormai in tutto il mondo, e abbiano prodotto
innumerevoli diramazioni periferiche della centrale parigina: ma è ben più vitale che ci si dedichi al rilevamento
di quello che potrebbe essere definito il "parasurrealismo latente"
nella cultura contemporanea. Andare a
vedere, allora, da che cosa traggono ispirazione, da dove ricevono vita certe
appropriazioni indebite (anche se tali soltanto a prima vista), certe
irregolarità sempre in qualche modo riconducibili a una regola. La pop-art, ad
esempio, che, nella rivista "Das Kunstwerk", è introdotta dal Last Object di Man Ray, datato due
volte, 1919 e '63. Questo metronomo con l'occhio non è forse
l'indice paradossale di una continuità misconosciuta? Così i manichini di Paul
van Hoeydonck, o di Segal, non possono fare a meno di richiamare alla mente, e
pour cause, con un sospetto di "scuola", anzi, l'Anatomie jeune mariée di
Ernst (1920). E come non paragonare le
bambole in pezzi di George Cohen alla famosa Poupée di Hans Bellmer? Edouard
Jaguer deve ben aver calcolato tutto ciò quando saluta in James Rosenquist
"l'un des très rares peintres (après Magritte et Troyen, avec Konrad
Klapheck) qui sachent forcer l'image naturelle dans les derniers retranchements
de sa ressemblance intérieure, san détruire totalement pour autant le jeu des
apparences", per concludere "Rosenquist ne remplace pas Magritte: il le relale". E si noti che
queste affermazioni si sviluppano proprio dalla nozione di modello interiore
(contrapposto al modello esterno), nozione che sta alla base della teoria
surrealista dell'attività pittorica, insieme a quella della conservazione, pur
attraverso lo "spaesamento", delle apparenze dell'immagine. Ma non è
solo in questo campo che è possibile scoprire elementi che ci autorizzano a
parlare di parasurrealismo latente. Nel suo libro Le surréalisme au cinéma, per esempio, Ado Kyrou - dopo avere
risolutamente affermato che "le cinéma est d'essence surréaliste, les rèves du dormeur perdent leur nature de rève pour se muer devant nos jeux
émerveillés en réalité", allargando così assai opportunamente l'area di
applicazione del termine (dal film dell'orrore alla fantascienza, dai musicals
ai cartoons) - prende in esame vari casi particolari per distinguervi ciò che è veramente
surrealista da ciò che lo è soltanto frammentariamente o in maniera incompleta
(nello spirito e non nelle immagini, o viceversa) per giungere poi a fare, sul
lavoro di Ingmar Bergman, le seguenti davvero rivelatrici considerazioni:
"Certains de ses films ont pu faire illusion, leur atmosphère insolite,
leurs rèves, leur construction
originale, leur humour (parfois) très noir nous ont fait croire qu'il était
proche du surréalisme... Ils sont dignes de figurer dans une anthologie du cinéma
parasurréaliste. Hélas, les limites de Bergman, qui
se complaît dans ses complexes chrétiens, ont été vite visibles". Non mi sembra
che ci sia bisogno di un commento: la complessità del problema, che è un
problema a più facce e tutt'altro che risolvibile con un sì o con un no, mi
pare risultare qui in maniera evidentissima, con ben evidenziata, anche, l'interazione tipicamente surrealista tra componenti estetiche e
componenti ideologiche. E non
basta, Matthew Josephson: «La vecchia generazione francese, diceva Soupault,
conosceva·l'America soltanto come “il paese del dollaro"; i letterati
conoscevano soltanto Whitman e Poe (il quale dopotutto era un prodotto francese); ma ora lui e i suoi amici dadaisti volevano scoprire la vera
America, l'America dei soldati che avevano combattuto in Europa, del jazz dei
negri, e soprattutto del cinema muto, il cinema di Mack Sennet, di I pericoli di Pauline, di Douglas
Fairbanks, Tom Mix, Rio Jim, ·deg1i assalti alle banche, i ratti fulminei, le formidabili scoperte di·filoni d'oro, i magnati che masticavano sigari
negli uffici sontuosi "dove il telefono squillava col suono di un corno
nella foresta"... Perfino il coltissimo André Breton andava a vedere i più sciocchi dei vecchi films americani, sperando
di scoprirvi quello che vi aveva visto Vaché - il sorprendente, l'inaspettato,
l'incongruo nell'azione di un cow-boy, nel galoppo dei ponies del West,
nell'immenso sorriso tutto denti di Pearl White - insomma "l'inizio di un
ordine nuovo"... Li rifornivo altresì delle vignette a puntate di “Krazy
Kat", opera di George Herriman... Esploravamo anche quotidiani e riviste
pubblicitarie americane per sfruttare il folklore che potevano offrirci». C'è in questo elenco ogni specie di
prodotti di quella cultura di massa verso la quale si rivolge, per attuare il
ricambio degli strumenti linguistici, la nuova letteratura sia italiana che
straniera. Questo interesse non ci permette forse di stabilire un parallelo tra
il periodo che stiamo vivendo e il primo dopoguerra? E, in
effetti, si tratta delle due estremità di un ponte gettato sul vuoto
rappresentato dal momento (tutt'altro che passeggero) nel quale si è potuto
auspicare un “superamento dell'avanguardia" e addirittura proporre,
complice magari Eliot, un nuovo classicismo. Una concordanza tutt'altro che
casuale - pensiamo anche ai rapporti surrealismo-Valéry - e che è ormai il caso
di rendere esplicita e cosciente. Perché
parasurrealismo Il
termine "surrealismo" ha una sua utilità storiografica, cui non
contraddice l'utilità operativa del termine “parasurrealismo". Il secondo
non vuole mettere a tacere il primo, anzi gli si ricollega direttamente. In una
prospettiva futura, l'uno potrà annullarsi nell'altro, o viceversa. A entrambi
è necessaria una forma di risonanza senza scadenze fisse, pluridirezionale,
molteplice, costantemente in fieri. Il parasurrealismo è surrealismo al
quadrato: un surrealismo che esce dal bagno nella cultura di
massa, dove ha visto la conferma e la distruzione di sé nell'uso che ne hanno
saputo fare le élites tecnologiche. “Il surrealismo, che aveva investito ogni
attività creativa, doveva condizionare in una misura incredibilmente vasta la
pubblicità. E la pubblicità, in quanto espressione necessariamente rapportata a
un gusto medio collettivo, doveva dimostrare a sua volta la vastità della
diffusione del surrealismo. Oggi, forse, l'abitudine visiva ci impedisce di
valutare appieno il mutamento rivoluzionario che si verificò nella sfera della
pubblicità lungo il corso degli anni venti e le influenze che il surrealismo
esercitò anche nei decenni successivi, fino al nostri giorni... Ma vi è di più: gli
ingredienti linguistici tipici dell'arte surrealista si rivelarono ai
pubblicitari - se convenientemente adattati e svuotati di taluni contenuti
eccessivi (sadismo e demonismo) - di estrema efficacia ai fini della
persuasione psicologica. Lo choc su cui avevano puntato i surrealisti si
dimostrava, così, proficuo ai fini della propaganda merceologica» (Carlo
Munari. Siprauno, 6, 1964). Questo
adattamento al gusto collettivo medio è il tradimento del surrealismo, ma è,
nello stesso tempo, un'ulteriore conferma dell'opportunità della nostra
esigenza di provocarne, oggi e qui, un revival... L'interesse per le opzioni ideologiche dell'avanguardia storica non può
essere disgiunto da un analogo interesse per i suoi cedimenti. E se nel surrealismo
il fenomeno della prostituzione mercantile del prodotto artistico si è avuto in
maniera così violenta e scoperta, ciò è
dovuto al fatto che il surrealismo, più di qualsiasi altra
forma d'avanguardia, ha patito (e spesso provocato) tutte le ambiguità tipiche
del rapporto arte-società borghese, così come, più di qualsiasi altra forma
d'avanguardia, ha provocato e patito tutte le ambiguità tipiche del rapporto
arte-ideologia marxista. Voglio dire che per sua e nostra fortuna il surrealismo
non ha mai accettato vie di mezzo, e ha sempre cercato di portare alle estreme
conseguenze quelli che erano, e sono, i dati di una situazione tragica e
grottesca di impasse, di un'alternativa senza sbocco: «Ou bien la
carrière des lettres (bourgeoises) ou bien celle de la révolution (marxiste)». Il parasurrealismo
ripropone nella loro nudità essenziale i termini della questione: accetta la
proposta surrealista di un lavoro impegnato alla creazione di nuovi miti da sostituire ai vecchi (lo
Stato, la guerra, il denaro, la posizione sociale, la lotta concorrenziale per
la sopravvivenza), con un richiamo alla responsabilità individuale e ai motivi
utopistici della libertà anarchica e della fratellanza universale. Diventa
allora legittimo parlare di una funzione
sciamanica rivoluzionaria dell'uomo di cultura, in opposizione alla funzione sciamanica standardizzata e conservatrice
svolta dalle élites tecnologiche. Tra i due ruoli non potrà esserci
coesistenza pacifica, ma soltanto lotta, e a tutti i livelli. Questa lotta si è
svolta e si svolge sul terreno della comunicazione. e da ciò la necessità della
formazione di “gruppi" con una disciplina e un'organizzazione in grado di
competere con l'organizzazione e la disciplina delle élites tecnologiche. Si è infatti
potuto parlare del gruppo surrealista come di un "set", come di un
insieme di persone, cioè, legate fra loro da certe affinità di atteggiamento e
da un'unità di scopi. E in effetti si pensa ad esso come a una società dentro
la società, come a una pattuglia di guastatori estremamente decisi. Ci
richiamiamo dunque al surrealismo come all'unico movimento dell'avanguardia
storica che si sia proposto, sia sul piano teorico che su quello
pratico-operativo, di risolvere questa serie di problemi. Appendice: l'impegno La letteratura
impegnata con la quale entriamo tutti i giorni in contatto non fa altro che
abusare di formule ottocentesche e piccolo-borghesi: non soltanto nello stile,
ma, quel che è peggio, anche nell'atteggiamento verso la realtà. Essa
è una letteratura morta come
letteratura, e tenuta in vita soltanto per ragioni politiche. Ma non è
certamente per puro spirito di contraddizione che è possibile affermare
tranquillamente che questa sopravvivenza è frutto di un equivoco, e che i
risultati strettamente politici di questa letteratura sono stati, nonostante
tutto, ben miseri. È dunque venuto il momento di fare il processo a questa parola,
e di smetterla finalmente di difenderla ad occhi chiusi, per dovere d'ufficio. Lo stato della nozione di impegno
oggi è quello di un palazzo che abbia
conservata intatta soltanto la facciata. Come l'etichetta di un barattolo
sigillato ma vuoto essa non serve ormai ad altro che a trarre in inganno il
consumatore. Per di più, si tratta di una nozione assolutamente vaga, che
tuttavia viene usata con la coscienziosità e la pedanteria con cui ci si serve
di uno strumento scientificamente esatto. Il fatto è che da un pezzo ormai ha
cessato di esercitare un'azione attiva, per accontentarsi di una pura e
semplice azione riflessiva. Così ridotta, non mette in crisi nessuna visione
del mondo, si sviluppa sulla falsariga delle opinioni correnti, invita a quella
rassegnazione che è la società stessa a pretendere da noi. Ma l'unico impegno possibile è proprio quello di combattere la rassegnazione. E ciò significa prima di tutto lottare contro la routine ideologica, che
è il primo passo verso la burocratizzazione dell'ideologia rivoluzionaria:
accettazione del mondo, non più volontà di trasformarlo. La rassegnazione ci
persuade che il mondo non trasformato, pur non essendo il migliore possibile, è l'unico possibile. Veniamo così convinti che la vita
dell'umanità è un bene per definizione precario, e che la violenza non è altro che uno dei tanti strumenti legittimi. È per mettere in crisi
questa giustificazione della violenza che si tratterà di impegnarsi - prima che
per il raggiungimento del fini - per il mutamento degli strumenti, per
l'abolizione del sacrificio umano. Non è il caso per questo di
sentirsi in qualche modo ai margini della lotta, o addirittura neutrali. La
trasformazione del mondo comincia dalla trasformazione degli strumenti dei
quali il mondo fa uso oggi per mantenersi inalterato. La rivoluzione radicale
nella quale speriamo può cominciare soltanto da una protesta assoluta, da una
obbiezione assoluta. Ciò che va messo in questione non è questo o quel
particolare, ma il tutto. La rivoluzione radicale è un fatto che ci deve
coinvolgere fino in fondo. Credo
che si debbano identificare cultura e libertà: libertà di ricerca, libertà di
denuncia, libertà di sperimentazione, e libertà anche da queste ombre che siamo
troppo abituati a considerare il risultato di una fatalità senza rimedio, o,
peggio, di un opportuno inevitabile tatticismo... Non possiamo più permetterci neppure la più piccola rinuncia: il
compito della cultura è quello di non accettare compromessi, da qualsiasi parte
venga la proposta di un accomodamento. La cultura così concepita è uno
strumento mille volte più potente di qualsiasi strumento politico, basta che si
accontenti di servire esclusivamente la verità. In questo senso, la cultura non
è scomponibile in teoria e prassi, in assoluto e contingenza... in questo
senso, la cultura è impolitica, non politica né apolitica. Bisogna pur dire che la cultura deve avere sempre
il diritto di comportarsi come un elefante in un negozio di cristalleria. Oggi
noi stiamo sospesi sul vuoto. Perché il mondo sul quale dovremmo riflettere non
ha più senso. Il prodotto più perfetto della
ragione umana, la scienza, si è rivelato come l'essenza stessa del male, della
follia. Siamo sul punto di compiere, dopo tanti faticosi passi in avanti, il più
grande balzo all'indietro che si possa immaginare. C'è una frase di Einstein,
pronunciata ad Alamogordo, che mi è impossibile dimenticare: «Dio non era
cattivo"... Essa fa bene intravedere il riflusso di irrazionalismo nel
quale l'energia atomica ha trascinato l'umanità. E in effetti l'esigenza di una
sistemazione razionale era comprensibile finché agli storici è stato possibile
prevedere di potere un giorno operare a posteriori sulla cronaca, sul tempo. Ma
nella situazione in cui siamo, in attesa di ciò che attendiamo, questa esigenza
ha tutto l'aspetto di un autoinganno, di un'ulteriore scappatoia offerta da noi
a noi stessi per continuare a ignorare la realtà. La storia è ogni giorno sul
punto di finire, e il suo destino non è più legato a nessuna forma di pensiero.
La spada di Damocle che pende sulle nostre teste non è più un
sillogismo, ma un gesto. Naturalmente, si può ridere di tutto ciò, in nome di
qualche ideale meglio organizzato. Ma vi invito ad avere paura. È soltanto a
partire dal sentimento umano della paura che l'inumanità di ciò che ci circonda
potrà apparire in tutta la sua estensione. Questo
grido d'allarme, questo invito alla paura e alla presa di contatto con la
realtà, è l'unico impegno
che mi sento di sottoscrivere. Lo
scopo della cultura diventa allora quello di mettere costantemente in
discussione la nostra omogeneità al gruppo sociale del quale facciamo parte, la
nostra acquiescenza alle regole dell'ambiente nel quale ha modo di prosperare la nostra omertà. La strutturazione
gerarchica, il conformismo passivo, l'oziosità mentale, i luoghi comuni, i
riflessi condizionati nella vita quotidiana, sono altrettanti pericoli nei
riguardi dei quali non è possibile altro atteggiamento che quello del più netto
rifiuto. È solo in questo caso che si potrà parlare di cultura operativa, la
cui dimensione sarà finalmente quella di una funzionalità rivoluzionaria
davvero concreta. Per
ridare vita alla nozione di impegno non può esserci una strada diversa da
quella che parte dall'opposizione diretta ai pregiudizi regolarmente segnati
sui nostri privatissimi biglietti da visita, dall'elencazione, voglio dire, delle nostre troppe numerose complicità. Quanto
al lettore, allo spettatore, al dialogante, soltanto una profonda irritazione,
soltanto un'indignazione artificialmente procurata potrà metterlo in quella
condizione eversiva che non si può fare a meno oggi di pretendere da lui. Un'ultima
cosa: nel '35, parlando della posizione politica del surrealismo, e della
situazione drammatica in cui si venivano a trovare gli artisti e gli scrittori
d'avanguardia messi di fronte all'impegno rivoluzionario, Breton diceva: «Gli scrittori e gli artisti d'avanguardia si
trovano dinanzi a un dilemma: o rinunciare a interpretare e a tradurre il mondo
secondo gli strumenti che ciascuno di essi trova in se stesso -
è dunque
la possibilità stessa della loro sopravvivenza a essere in gioco - o rinunciare
a collaborare sul piano dell'azione pratica alla trasformazione di questo mondo». Ebbene, è
necessario che a questo dilemma venga messa finalmente la parola fine. Ancora,
dunque, il richiamo al surrealismo. E un richiamo tutt'altro che casuale,
perché oggi più che mai sembra necessario un programma di rivolta logica, se è
vero, come è vero, che la storia si fa secondo una logica pseudoumana, quella
della forza e della paura. È uno squilibrio volontario che
non si può fare a meno di mettere in atto in una società che sopravvive sul
principio dell'equilibrio del terrore. È proprio in
questa "impoliticità" della cultura che il surrealismo sembra
indicare una via d'uscita alla dicotomia carriera letteraria (borghese)
rivoluzione (marxista). Per usare ancora parole di Breton, "non ci resta che tentare di dare alle nostre
opere quel senso che vorremmo che avessero le nostre azioni". Fonte: Adriano
Spatola, «Surrealismo e parasurrealismo», Marcatrè,
26/27/28/29, dicembre 1966, pp. 248-251.
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