pagina del sito di Tèchne

Giovanni Maccari
UNA PROPOSTA PER LA SOLUZIONE
DEL PROBLEMA DELLA LETTERATURA



La mia proposta discende dalla constatazione del carattere pernicioso della letteratura, e del suo influsso nocivo sulle vicende umane.

Si osservi come un atteggiamento letterario privi di verità e tolga valore a un qualunque gesto. È sufficiente un grammo di letteratura per macchiare di una sostanza disgustosa anche l’azione più nobile e più onesta. Nella lingua comune il termine letteratura è sinonimo di artificiale e di artefatto, di recitato e non sentito realmente. Una persona che fa letteratura è qualcuno che agisce in modo appariscente e al tempo stesso inefficace. L’uomo comune sente in sé un’avversione per la letteratura, una specie di orrore primordiale, come verso una cosa che minaccia specificamente la sua integrità e il suo senso della decenza. La sua reazione naturale è l’imbarazzo, qualche volta la vergogna. Quando sorprende in sé un atteggiamento letterario, prova l’istinto di andare a nascondersi e non parlare mai più con nessuno.

La letteratura è collegata con l’amore; sarebbe facile dimostrare che senza amore non ci sarebbe letteratura. Che cosa è l’amore? È il sentimento di un difetto, di qualcosa che manca. Se non mancasse niente, al mondo, non ci sarebbe la letteratura.

A sua volta l’amore è collegato all’istinto sessuale; sarebbe ancora più facile dimostrare che senza istinto sessuale non ci sarebbe nulla di simile all’amore. La mancanza si rivela pertanto per quello che è: un’imposizione. La natura crudele rende gli esseri organici schiavi del desiderio. Categorie meno sensibili come gli alberi e i lombrichi non se ne fanno un cruccio e proseguono tranquillamente a vegetare o a strisciare nel fango, adempiendo senza tormento né entusiasmo allo scambio dei gameti nel tempo stabilito. L’uomo invece trova indegno il suo stato servile, e così ha scelto questa roba, ha inventato dei riti e organizzato un sistema di complicate liturgie per dissimulare la sua cupa passione verso il coito.

L’invenzione di tali riti coincide con la nascita della letteratura, questa stessa invenzione è la prima figura retorica della storia del mondo, consistente nell’eufemismo.

Si pensi ora alla teoria dell’amore così come è stata formulata nell’età moderna. Per esempio l’amore romantico. All’origine dell’amore romantico si trova una versione fraintesa del cosiddetto paradosso cortese, secondo il quale a un uomo spetta il desiderare una donna senza però che gli sia mai possibile possederla. La donna è una creatura angelica e immateriale, qualche volta benigna e qualche volta dura, cioè crudele, maldisposta, renitente a fornire anche quei pallidi surrogati della soddisfazione sessuale che sono lo sguardo o il saluto.
In questa logica distorta è fatale che l’uomo, una volta caduto nella trappola dell’amore, cioè della letteratura, sia indotto a comportarsi in maniera sconveniente, esposto a tutte le vergogne, pronto a commettere qualunque stupidaggine pur di attirare l’attenzione.

Nel Cavaliere della carretta Lancillotto sale sul carro del nano, che nella percezione dell’epoca equivale alla gogna. Questo significa perdere d’un tratto il titolo di cavaliere, i suoi averi, la fiducia del re e il rispetto dei suoi contemporanei: ma quando arriva da Ginevra, e sta per darle un bacio, lei lo rimprovera aspramente perché ha esitato per un passo, e non ci manca niente che gli neghi il bacio, perché ha osato pesare come su una bilancia il suo amore per lei e quelle quattro bazzecole che ha perso.
I poeti italiani, Cavalcanti, Petrarca, mostrano uno sgomento all’apparire della donna, che la vista gli si offusca e sentono male dappertutto, e anche Dante nella Vita Nuova apre un dibattito interno fra i suoi spiriti, in cui gli spiriti piangono, si lagnano, protestano vibratamente, ma finiscono per assoggettarsi al dominio dispotico di amore. Rinaldo nel giardino di Armida (Tasso) è ridotto a un idiota effeminato dalle arti congiunte della maga e, nuovamente, di amore. È significativo che qui, fra i due amanti, ci sia questo rapporto: che Armida si guarda in uno specchio e Rinaldo si specchia nei suoi occhi, cioè negli occhi di Armida, e il suo spirito langue in questo vuoto intreccio di contemplazioni.
L’ultimo esempio che voglio fare però è quello più impressionante, anche perché si riferisce a un uomo, come dire, della nostra era, rispetto al quale tuttavia un amico e apologeta ha giudicato che andasse misurato unicamente secondo i parametri della santità. Si parla insomma di Franz Kafka. In una lettera scritta nel 1920 Milena Jesenska [nella foto], la penultima fidanzata del grande scrittore, si esprime così: “Voglio sapere se anche sotto di me Franz ha sofferto come sotto ogni altra donna”. Sotto di me, appunto, come se l’esistenza di Franz Kafka fosse stato un territorio assoggettato in varie epoche a potenze straniere.

Ci si domandi di che cosa si vergogna un giovanotto adolescente per esempio di prima o di seconda superiore. C’è una forza incontenibile che sembra trascinarlo verso la degenerazione, verso le smancerie e le smorfie delle persone grandi, e ne ha uno schifo violento, tuttavia non riesce a sottrarsi ai suoi comandi. Ficca la testa nel cuscino, scartabella fra i suoi album, maneggia senza convinzione i suoi oggetti elettronici. Niente di quel che è giusto e buono e a cui finora ha dedicato tutta la sua attenzione gli dà più piacere. Come mai? E come mai nella sua giovane vita si è introdotta la vergogna, il segreto, la riservatezza, la delicatezza, le attenzioni, le precauzioni, il misurare gli atti e le parole e tutto questo ignobile insieme di fatti? Perché deve parlare; non parlare per chiedere o per dire qualcosa, ma perché deve esprimersi, ovvero deve trasmettere i propri sentimenti in una forma accurata e persuasiva. Nella sua vita si è introdotta l’esperienza erotica, e con essa la letteratura.

Per molti uomini, naturalmente, si tratta di una fase. In seguito dimenticano questo periodo penoso e si dedicano ottusamente alle loro attività; anche se si conserva in loro sia l’istinto sessuale sia quel senso di avversione che si è detto all’inizio, sotto la forma di un costante imbarazzo e del continuo sospetto che l’amore (e di conseguenza la letteratura) possano nuovamente presentargli il conto.
Questa vita non è del tutto dignitosa, come tutte le vite nelle quali ha una parte la paura.

Si osservi che parlo degli uomini e non delle donne perché il mio punto di vista è maschile, e nel contesto generato dall’azione congiunta dell’amore e della letteratura la donna è, in fondo, un’entità nemica all’uomo. Ma il discorso potrebbe essere facilmente rovesciato.

La mia proposta, per venire al fatto, discende da quanto precede e si articola molto semplicemente nel modo seguente. Si stabilisca una data nel prossimo futuro (una data che in seguito verrebbe celebrata come una ricorrenza collettiva) a partire da cui tutti i neonati verrebbero evirati con un’operazione indolore e umanitaria. Dalla faccia della terra scomparirebbe l’istinto sessuale, e in conseguenza scomparirebbero anche l’amore e la letteratura. Sarebbe un modo per tornare al vecchio bivio, alla vecchia imposizione, e rispondere per una volta senza retorica, cioè senza eufemismi. L’umanità vivrebbe in questo modo un’epoca crepuscolare e interamente consacrata al senso della rovina e della fine, ovvero a tutti quei pensieri che nella storia del mondo hanno potuto occuparla solo occasionalmente e nei ritagli di tempo concessi dalla letteratura. Non ci sarebbero più nascite ma solo vite e morti, e se si vuole un risvolto poetico, o almeno suggestivo, si pensi all’ultimo uomo che imprimerà le sue orme sulla terra, perché dovrà pur esserci un ultimo uomo, quello che spengerà la luce una volta per tutte, e se ne andrà contento perché saprà che dietro di lui non c’è nessuno.