Tommaso Landolfi —
Egregi colleghi, il mio illustre quanto giovane preopinante, non gli suoni ciò
offesa, ha una fervida fantasia; ed essa appunto lo ha tratto di grado in grado
ad ammissioni che non possono non lasciare perplesso, a dir poco, chiunque
ragioni sanamente. Laddove egli tanto s'è infervorato nella sua ipotesi, da non
più distinguere ormai, se non il vero dal falso, il probabile dall'improbabile,
da essere indotto a conculcare l'esperienza, e sia pure esperienza analogica,
soprattutto da aver perduto di vista il punto di partenza dell'ipotesi stessa.
Perbacco, intendo, come ogni ipotesi è in ultima analisi ammissibile, così ad
essa, a una qualunque, si può sempre con un po' di pazienza ricondurre i fatti,
tanto è vero che questi son ciechi servi del pensiero e di per sé inesistenti;
occorre dunque a un certo momento dare addietro quel tanto che basti a
ristabilire una corretta prospettiva e a valutare l'oggetto d'indagine dirò
così nella sua immediatezza o nel suo diretto messaggio, come chi è rimasto
lungamente involto nelle pieghe di puntiglio se elucubrazioni ad esso medesimo
relative non è più in grado di fare. Ma,
senza altri preamboli, veniamo a quanto il nostro giovane collega ci ha
proposto riguardo ai segni che vedete riprodotti in questo cartiglio, S.P.Q.R.,
e cerchiamo di riassumerlo più distintamente, con sua buona pace, che egli non
abbia saputo fare. Orbene, a parer mio le cose devono essere andate come segue.
Per qualche sua misteriosa, oh misteriosissima, intuizione, o piuttosto mosso
dall'affascinante prospettiva di attribuire un glorioso passato umano e
addirittura storico agli abitanti del pianeta nostro vicino, egli si è convinto
che questi segni fossero una parola di una non meglio identificata loro antica
lingua; una parola, badate bene, ossia che ciascuno avesse preciso valore
alfabetico e tutti insieme componessero una parola. Su ciò torneremo presto,
pel momento seguitiamo. Una volta così convinto, egli aveva a buon conto
bisogno di qualcosa che tale parola giustificasse, vale a dire d'una lingua
appunto, la quale per converso resterebbe unicamente da tale supposta parola
testimoniata; e poi di qualcosa che giustificasse la lingua medesima, una
lingua vera e propria e alfabetica per giunta, vale a dire d'una civiltà; e
finalmente delle vestigia di questa... Difficoltà non lievi certo, specie se la
sede di tutte queste belle cose ha da essere un pianeta selvaggio; ma che, come
avete udito, non hanno per nulla sgomentato il nostro giovane collega. Egli
infatti ci ammannisce tutto ciò che ci bisogna per accettare la sua prima
ipotesi, e a lasciarlo fare, chissà, giungerebbe forse, risalendo di fantasia
in fantasia o da ogni fantasia al suo necessario presupposto, secondo una
logica interna e follemente aprioristica, giungerebbe forse a inventarsi, mi
perdoni egli, e a descrivere un dio creatore di quel mondo!... Ah
signori, ma lasciamo questa triste storia di progressive involuzioni e
consideriamo a faccia a faccia gli argomenti del nostro, pel resto
stimatissimo, collega. Basterebbe demolirne un solo perché l'intera sua teoria
crollasse; ma, vedi caso, siamo poi al caso di demolirli tutti. All'opera
dunque. Avido
di vestigia e di civiltà sepolte, il nostro ha frugato indefessamente la selva
terrestre; e che vi ha trovato? La pietra che reca iscritti questi segni,
d'accordo; e che altro? Nel luogo stesso, dice egli, due file di massi
arrotondati e vagamente cilindrici, disposti a intervalli pressoché regolari e
tutti egualmente orientati, tali da dar l'idea di immani colonne che,
rovinando, si fossero scommesse nei loro rocchi. E ancora? Accumuli di
pietrisco della profondità di molti metri, secondo fu dato rilevare, quali di
solito non si riscontrano nel vicino pianeta; e alcune cavità sotterranee
simili a canove o cantine; e masse di materiali vari che si sarebbero detti
coerenti per forza di malta. E che più? Nulla più: a tanto si limitano i
significativi anzi decisivi reparti del nostro... Colleghi! non vi farò
l'affronto di commenti partiti. Guardiamoci in viso: la scienza, noi tutti lo
sappiamo, non si fa con ciò che dà l'idea di qualche altro ciò, né colle
similitudini né coi si direbbe o si sarebbe detto. Chi ignora che la natura simula
spesso le opere umane, ammettendo che si debba parlare di simulazione in
presenza d'una o due file di massi arrotondati? Chi ignora che, specie nel vicino
pianeta, si danno grotte, cavità e anfratti vari, o che talvolta materiali
d'ogni sorta possono presentarsi coerenti per forza di malta sì, ma di malta naturale?
Dimenticavo, per la verità, una cosa: in taluno di questi blocchi o che, il
nostro ha ravvisato la presenza di elementi di ferro; la presenza, dice egli,
come, e notate questo come, di lunghe bacchette o bastoni o aste di ferro... Eh
via, la bella scoperta che là si trova, per quanto di rado, ferro libero! No,
signori, non è così che si può fornire testimonianza di una passata civiltà:
definire incerti tali ritrovamenti sarebbe troppo, e converrà dirli senza più
immaginari. E
passiamo all'altra curiosa idea della lingua alfabetica con relativa parola.
Qui dall'immaginazione si arriva addirittura al delirio! Intendiamoci: che prima
di essere quali oggi li vediamo i terrestri siano stati diversi e meno selvaggi
se non più civili, ciò può sempre ammettersi e perfino, se volete, supporsi analogicamente;
che prima di comunicare tra loro con grugniti e suoni indistinti e voci
inarticolate, come ora fanno, essi abbiano avuto un che di simile a una lingua,
un qualche rudimentale sistema fonetico, forse anche una scrittura, sarà magari
possibile, benché nulla ci autorizzi a crederlo; ma ciò che assolutamente mi
rifiuto di ammettere e che, allo stato almeno delle nostre conoscenze, appare
come dire impossibile è che coloro possedessero una lingua superiore. Una
lingua alfabetica! Ma sa bene il nostro giovane collega che cosa, quale somma
di esperienze, quale illuminato progresso, quale organamento anche sociale,
quale civiltà infine, essa presupponga? E gli esseri capelluti che noi oggi
vediamo correre d'antro in antro, ansiosi solo di intanarsi o di inselvarsi,
sarebbero stati, sia pure in un remoto passato, gli elaboratori di una tal
lingua?... Da una lingua alfabetica a una letteratura poco corre: e su quelle basse
fronti, in quegli occhi torvi si sarebbe quando mai si voglia accesa la
scintilla del genio? Oh no signori, questo non può essere ad alcun patto
concesso, e tanto meno congetturato, se non da chi sia vittima d'una
infatuazione. No, abbandoniamoci pure, se vi piace, alla fantasia, ma sia essa
almeno consona alle risultanze delle nostre indagini e all'equilibrio stesso
del nostro intelletto, sia essa contenuta entro limiti plausibili: se quelle
genti, e debbono poi chiamarsi genti? se quelle genti ebbero mai lingua
scritta, non già alfabetica potrebbe essere stata, sibbene tutt'al più
ideografica! Ma
tant'è: al nostro giovane amico conviene postulare una lingua alfabetica. E con
cosa poi, tra parentesi, avvalora la sua postulazione? L'ho già detto, colla
parola che in quella lingua sarebbe scritta. E da cosa questa sarebbe definita
o proposta in quanto parola? Dalla lingua stessa. Indimostrato per
indimostrato, come ben potete vedere, o dimostrazione coll'indimostrato, o
meglio ancora dimostrazione reciprocamente condizionata: un vizio logico che ha
il suo nome. Tiriamo via, nondimeno: di ciò non contento, egli ha (mi perdoni
egli l'espressione) la faccia fresca di dichiararci punto per punto il suono e il
significato della parola che questi quattro segni comporrebbero... Oh, miei
cari colleghi, datevi pace: io non intendo seguire il nostro tra le sue nuvole,
né esaminare o confutare di parte in parte la sua interpretazione... diciamo
pure filologica, per mancanza di più acconcio aggettivo; e d'altronde il
gratuito è di per sé inconfutabile. lo mi studierò invece di smantellare la
cittadella senza espugnarla e senza pur mettervi il piede, in altri termini di
respingere a priori le affermazioni del nostro giovane amico. Vediamo se a ciò
per avventura non basti una sola bordata od obbiezione. Nella sua foga egli
giunge a precisarci che questi quattro segni, da lui definiti lettere, sarebbero
nell'ordine una sibilante, una labiale esplosiva, una gutturale e una liquida.
Ed io chiedo umilmente: una simile parola, come si pronuncerebbe? Provi
ciascuno di voi a farlo, con tutte le possibili combinazioni di sibilanti,
esplosive, gutturali e liquide, e me ne dia novelle. Né varrebbe qui eccepire che
a quanto non siamo noi atti potrebbero esser atti i terrestri: diamine, quali siano
costoro e di quali organi siano forniti sappiamo in buona parte, e, non
sapessimo, potremmo egualmente argomentarne con sicurezza, giacché essi sono al
pari di noi figli del sole, epperò (ci piaccia o non ci piaccia) nostri
fratelli, epperò a noi assai prossimi per fisica costituzione. In breve, noi
possiamo escludere nella maniera più categorica che essi siano o siano mai stati
in grado di emettere filatamente una tal serie di suoni. Stimatissimi
e cari colleghi, seguitare significherebbe infierire. Mi lusingo di aver
sufficientemente, se pur succintamente, mostrato l'inconsistenza delle teoriche
oggi sottoposte al nostro giudizio, e potrei con ciò por fine al mio dire. Ma
son tentato di sottoporvi a mia volta, se me lo consentite, una mia personale ipotesi
che, o m'inganno o vi apparirà assai più pertinente al caso, e avrà almeno il
merito dell'ovvietà. Vedo che mi date licenza, e vi ringrazio e proseguo.
Dunque, amici, debbo prima di tutto richiamarvi a quanto ho poco innanzi appena
accennato: ossia che, ove di una passata lingua terrestre s'abbia mai a
parlare, la medesima non avrebbe potuto essere se non ideografica. Ciò posto,
riesaminiamo insieme questi segni, un per uno e cominciando dal primo. Ditemi:
a che vi somiglia esso?... Voi lo avete detto: a un serpente. Somiglianza tanto
evidente, che non ci attarderemo a discuterla; noteremo invece che di serpenti
appunto abbondano le selve del vicino pianeta e sempre abbondarono, secondo
sappiamo dai nostri reperti, quali fossili e altro. Ma veniamo senza più al
secondo segno: orsù parlate voi stessi... Ebbene sì, amici, anche qui siete stati
ben serviti dal vostro semplice buon senso: si, il secondo segno appare di fatto
come la stilizzazione d'un albero, col suo tronco e la sua chioma, in
particolare d'un di quei loro alberi a chioma tonda o tondeggiante che noi
abbiamo chiamato pini. I quali, non è chi possa negarlo, crescono e crebbero
lag-giù copiosi e rigogliosi, sì da venire forse, in qual-che regione del
pianeta, a figurare gli alberi per ec-cellenza. Consideriamo ora il terzo
segno: che ne dite voi, non vi suggerisce esso alcuna immagine familiare?...
Già, capisco, qui certo la somiglianza è molto meno evidente; ebbene, guarderò
di aiutarvi,e zittitemi se vi par ch'io sragioni o traveda. Il terzo segno,
dico, non vi sembra esso ripetere o accennare o riassumere, essenzializzandola,
la forma di una loro femmina?... Calma, non vi agitate: le loro femmine, come
d'altronde le nostre, non son forse vivipare e non sono di conseguenza larghe
di sotto, non hanno insomma il bacino e il ventre arrotondati per far luogo al
feto? ventre, poi, che addirittura si presenta rigonfio, come ben sapete,
nell'imminenza del parto?... Ah, vedo che pian piano prendete coscienza della
mia idea o visione e vi disponete ad approvarla. Me ne rallegro; ma voglio
ancora, perché tale approvazione non vi pesi tanto o quanto, farvi osservare alcunché.
Cosa sarebbe, vi chiedo, il tratto che taglia in basso la rotondità di questo
terzo segno?.. Che dite? che esso potrebbe stare a rappresentare le gambe della
femmina? No, amici, credo d'aver di meglio e di più lampante, e d'altra parte
tale tratto non è meramente sottoposto, ma entra, per dir così, nel corpo del
segno. Entra, o esce... si, colleghi, il tratto altro non rappresenta che il
frutto di quelle viscere di femmina; esso è il bambino nascente e, per quanto
ci riguarda, è da considerare quale una determinazione ulteriore e quasi ad
abundantiam. Ovvero anche potrebbe essere un vero e proprio tratto
distintivo, idoneo cioè a distinguere questo segno da altri simili per
avventura presenti in quel sistema grafico, o da ultimo il segno stesso, modificato
dal tratto, potrebbe voler designare in ispecie la femmina incinta o la
puerpera (come sospetto); ma in ogni caso ciò non sposta la questione... Ed
ecco ci così al quarto ed ultimo segno. Per altro qui la via è ormai spianata,
né vi farò il torto d'interrogarvi. Il quarto segno infatti è semplicemente la
combinazione, secondo il modo appunto dei sistemi ideografici, di due segni
precedenti, e precisamente dei due primi. Osservatelo: voi vedete qui ripetuta
la forma dell'albero e, all'ingrosso, quella del serpente, benché diversamente
orientata. E a che approda, direte, tale combinazione? Ma è manifesto: noi ci
troviamo di fronte a un segno dinamico o di moto, non certo sconosciuto,
daccapo, ai sistemi ideografici. In altri termini: il serpente sta salendo sull'albero,
o ha la capacità di farlo. Soggiungo subito, del resto, che al postutto
potremmo anche considerarlo, questo segno, statico al pari degli altri: nel
qual caso figurerebbe un serpente pendulo dai rami d'un albero, o, se
preferite, un albero con un serpente pendulo dai suoi rami. Come per converso, mi
torna ora a mente, dinamico potrebbe essere inteso il terzo segno. Ma l'essenziale
è che l'una o l'altra di queste eccezioni confermerebbero in caso, non mai
infirmerebbero la validità della mia spiegazione finale; cui, vedendovi con
piacere e fin qui convinti, senz'altro mi faccio. Noi
siamo dunque giunti a questa sequenza: Serpente,
albero, femmina o femmina di parto, serpente che sale o può salire su albero o
da esso pende. E
ora, che potrà ciò significare? in che modo porremo in relazione tra loro
questi singoli concetti e «leggeremo» la sequenza nel suo insieme? qual è infine
il senso unico di ciò? Signori! ma è elementare, se soltanto si rinunci ad ogni
idea preconcetta; basta, se così posso dire, lasciar parlare questi ideogrammi.
I quali alle corte, o signori, componevano nulla più e nulla meno che un
monito, un pubblico avviso del genere dei nostri. Che, alla buona, può essere
così tradotto ed ampliato: In
questo luogo selvoso c'è particolare abbondanza di serpenti pericolosi: se ne
guardino in special modo le femmine (quali esseri più deboli, soggiungo io,
equali portatrici o custodi della prole altrimenti indifesa), e non si fidino
neppure degli alberi (sui quali forse quelle genti dimoravano o usavano
rifugiarsi), giacché i serpenti possono salirvi ovvero, pendendo dai rami,
aggredire inopinati. La
qual cosa è da me detta con molte parole, ma era da questi ideogrammi espressa,
come potete vedere, in forma concisa e immediata, secondo si conveniva
all'intelligenza di quei lontani abitatori del pianeta selvaggio. Egregi
colleghi, ho finito: che altro potrei aggiungere? Ho forse abusato della vostra
benevola attenzione, e me ne scuso, come di essa vi ringrazio; ma voglio
sperare che le mie parole, sia nella parte confutatoria che in quella
costruttiva del mio intervento, non siano state del tutto inutili, e i cenni di
approvazione che mi giungono da molti di voi mi confortano in questa speranza.
Circa poi la mia ipotesi medesima, desidero non lasciar adito ad equivoci;
ripeterò pertanto che noi siamo qui tuttavia nel campo della mera
immaginazione. Io cioè non mi attento ad affermare positivamente checchessia:
per quanto ne so, questi segni potrebbero anch'essi ascriversi al capriccio
della natura; altrimenti detto, le mie supposizioni valgono, se valgono,
unicamente pel caso che gli stessi siano davvero qualcosa. Nondimeno, e se è
vero che un'ipotesi conta soprattutto come metodo d'indagine, la mia compone
almeno logicamente e plausibilmente i pochi ed incerti dati in nostro possesso.
Ma
basta. Un solo gradito obbligo mi rimane: riaffermare pubblicamente la mia alta
stima al nostro giovane e valoroso collega, quand'anche egli si sia, a mio
avviso, in quest'occasione ingannato. Un'esemplare prova di civiltà egli ha tra
l'altro fornito col non interrompere le mie modeste argomentazioni, e col non
prendere in mala parte qualche esuberanza di linguaggio cui posso essermi
abbandonato nel calore del discorso. E
mi taccio ormai... Che cosa? egli accenna a voler replicare alcunché? Ma certo!
Udiamolo.
Fonte: Tommaso Landolfi, Racconti impossibili, Vallecchi
Editore, Firenze, 1966, pp. 37-46. Il testo è compreso nel n. 23, 2014 della rivista Nuova Tèchne. Per tornare al sommario del n. 23 della rivista cliccate qui. __________________________ |