pagina del sito di Tèchne di Paolo Albani

Ada De Pirro
GIORGIO MANGANELLI E GASTONE NOVELLI.
PAROLE ALLE IMMAGINI E IMMAGINI ALLE PAROLE.


La carne è l’uomo che crede al rapido consumo

 testo apparso su Grammatica, n. 1, 1964

 

            Prima di tutto il titolo indica la volontà di compiere un lavoro arbitrario, cioè non vogliamo fare nessun accertamento di ordine scientifico, né, almeno a mio avviso, pretendiamo di scoprire delle verità; vorremmo, invece, inventare delle verità./ Sono personalmente convinto che la verità è materia di invenzione, è materia di astuzia, di arguzia, e non già di indagine./ Grammatica è la descrizione artificiale di un discorso. Noi possiamo trascrivere lo stesso discorso in parecchi modi alternativi nessuno dei quali è più sbagliato o giusto degli altri. / Perché ci interessa tanto questa descrizione?/ Perché la nostra arbitrarietà vi si articola, ed è un'arbitrarietà legata ad un/ qui è difficile molto trovare la parola, bisogna piluccare varie parole che sono tutte in misura diversa inadeguate (come la parola realtà)/ diciamo «universo» ché la parola non significa poi molto, ma è grossa./ Dunque: ogni universo è in primo luogo un universo linguistico in quanto è proprio una morfologia ed è sottoposto a tutto il rigore e a tutta l'arbitrarietà delle morfologie. Così noi possiamo parlare del linguaggio come di ciò in cui l'universo stesso diventa non direi pensabile / cosa possiamo dire? in che modo l'universo è linguaggio?/ direi: abitabile./ Grammatica è anche una parola estremamente modesta: noi oltreché avere l'ambizione di inventare una verità, siamo anche dei (non direi: filologi) catalogatori/ c'è tutto un lavoro di degradazione dell'ideologia, perché naturalmente il discorso, il linguaggio è contemporaneamente molto di più e molto di meno dell'ideologia, e in questo modo può evitarne l'arroganza./ Quindi questo titolo sa un po' di saio, ha un che di fratesco, di lavoro da convento, di grandi fogli un po' scarabocchiati./

            /Sai che i primi che si sono occupati proprio delle grammatiche sono i filosofi stoici?/ Nel termine «grammatica» c'è tutta l'astuzia un po' topesca che uno mette nel catturare i frammenti dell'escremento universale e nel coprirli di tante variegate articolazioni verbali, anzi, nel risolverlo in questa articolazione./

           Mi pare ci sia una contraddizione. Tu hai detto che l'universo è linguistico, ma poi hai detto che si tratta di coprire l'universo di segni linguistici. Capisco che la contraddizione ha una ragione. Ma vorrei che tentassi di spiegarla./ No, no! È una frase sbagliata./ A me piace la frase come idea./ Sì, sono contento che a te piaccia, ma di fatto è tutta sbagliata./ Però l'hai detta./l'ho detta, l'ho detta perché noi siamo, noi viviamo mescolati in vari elementi linguistici, infatti stiamo facendo dei lavori paralleli in cui /che vuoi dire tu?/ Scoprire? Questo mi piace: scoprire i segni linguistici. Cioè il linguaggio è il vero dato oggettuale; non ce ne è mica nessuno al di fuori di quello./

            /L'universo è muto, cioè parla soltanto per simboli e il suo linguaggio è tutto da decifrare. Mitologicamente questo universo sembra parli un po' come noi, no? Cioè io lo sento così quando tu ne parli. Invece io lo vedo parlare per simboli e quindi effettivamente il fatto che tu dica «coprire l'universo di segni» o che tu dica «scoprire i segni» è un modo per decifrarlo, anche per rispondere, per chiacchierare con lui, per dialogare con lui./ Io credo ci sia un piccolo equivoco: l'idea che quando si usa la parola «linguaggio» si alluda a qualcosa che significa, ma non è mica vero che il linguaggio significa./ Il linguaggio, a mio avviso, è semplicemente organizzazione. Di niente. Organizzazione di se stesso. Diciamo: come la grammatica/ come la dialettica grammaticale/ non significa nulla di per sé, così nel linguaggio è 1'organizzazione stessa di ciò che prima abbiamo chiamato universo, ma non è assolutamente un significato, non comunica mica niente./

Ma tu mantieni, sospendendola, la nozione di significato o la escludi totalmente perché non esiste il significato? Se esiste dovresti spiegarmi come lo individui./ Sul momento non ti so rispondere, onestamente./ Ma questo è il punto da chiarire./ Ecco, forse ho trovato l'orientamento preciso. Non credo al significato come indicazione oggettiva avulsa dal linguaggio. Il linguaggio è un luogo abitabile e quello che noi chiamiamo significato è semplicemente l'abitabilità di quel luogo. Quindi non è propriamente un significato, cioè non ci sono dei significati al di fuori del linguaggio. Ci sono dei luoghi./ Sia pure, io vorrei usare questo concetto di abitabilità. come alternativa al concetto di significato, perché se io accetto questo concetto di significato, l'abitabilità diventa operante, è una frase che ha senso./ L'abitabilità esiste, ma non esiste finché tu non la abiti. Cioè esiste in potenza ma non è usata. Esiste l'inabitabile.

Mi pare che stiamo cercando, prima ancora di fare la catalogazione, di dare un significato o un valore ai dati. Cioè il discorso sulla abitabilità e sul significato è un discorso a posteriori, non può essere a priori. Non possiamo fare una catalogazione partendo da un presupposto generale e totale circa un rapporto./

Non ti seguo del tutto./

No, io credo di aver capito./ Io non sono d'accordo con te, perché la situazione del catalogo o la descrizione dei materiali possibili è una situazione che tutto sommato mi pare che noi abbiamo un po', non dico superato, perché entro certi limiti un artista non esce mai fuori dal mare dell'oggettività/ ostilità/ quindi non supera mai niente/ ma diciamo «sbloccato»: come situazione culturale mi pare proprio che «grammatica» ha un significato costitutivo, vuole essere anche un certo tipo di fondazione non precettistica: cioè, noi ci comportiamo ormai, tentiamo di comportarci, come se il diluvio lo avessimo dietro le spalle e non davanti. Entro certi limiti./

Non sono d'accordo con te; non vedo perché avendo il diluvio alle spalle, noi non possiamo fare un'operazione di catalogazione. Operazione di catalogazione sempre dopo il diluvio. Mai prima del diluvio, o durante il diluvio./ Faccio notare che la nostra catalogazione deve avere un senso./

Ritorniamo al punto della rivista. È chiaro, è evidente che se stiamo qui a discutere sulla necessità di un titolo di una rivista, vuol dire che abbiamo prima avvertito la necessità di fare una rivista perché abbiamo constatato che siamo arrivati a un punto, ormai ben definito e ben preciso, sul piano della ricerca individuale./

Io non sono certo che ci sia necessità di una rivista, so che noi abbiamo la necessità di chiarire certe idee e può darsi che la rivista ci aiuti a farlo. E direi che questo è l'ordine in cui stanno questi problemi. Quanto a quello che hai detto, io ho l'impressione, non più che l'impressione, che il tuo concetto di catalogazione sia inconciliabile col concetto di grammatica. La catalogazione può avere una struttura ma direi ha un po' la struttura del verme che è tagliabile in infiniti punti. La caratteristica della grammatica è propria appunto quello di non essere assolutamente tagliabile. È una macchina e ci stiamo dentro, l'abbiamo inventata e l'atto è stato necessario./ C'è tutta una serie di ambiguità in questo concetto di grammatica. A me pare che sia bene sottolineare, per lo meno io vorrei sottolineare, nel concetto di grammatica, per l'appunto questo carattere di ordine disordinato, cioè di ordine che si sottrae a tutti gli altri ordini, quindi di gesto arbitrario e intrinsecamente coerente che è mi pare qualcosa che non corrisponde esattamente a quello di catalogo./

Di questo non sono molto convinto perché la catalogazione è di per se stessa un fatto arbitrario. La catalogazione non deve necessariamente partire da un dato prescelto a priori. La catalogazione avviene su elementi che tu hai in mano. Tu hai tre sassi e due foglie, a un certo momento tu metti le foglie da una parte, i sassi dall'altra e già crei una catalogazione./

Ecco. Mi pare però che ci possa essere anche qui un equivoco. Tu hai detto tre sassi e due foglie. Apparentemente stai catalogando oggetti, in realtà stai offrendo parole. Queste parole a loro volta sono solo illusoriamente catalogabili, come non appartenenti ad una grammatica: il discorso sui sassi, acquista un significato, almeno a mio avviso, solo se io lo colloco dentro la grammatica, dentro la pancia di una grammatica. Questa pancia mi sembra fatta dai tre sassi, dalle due foglie, nel momento in cui tu scegli questi oggetti per catalogarli./ Ecco, bisogna fare una scelta./

Per usare un termine molto ambiguo, come è ambiguo lo stesso termine «grammatica»: in sostanza, noi diamo dei termini ambigui perché volutamente questa ambiguità ci permette di lavorare dal punto di vista scientifico, così con maggiore imprecisione ci permette maggiori possibilità, è chiaro, no? Più aperture. Ora, appunto per questa ragione il termine catalogo usato in senso ambiguo, è equivalente al termine grammatica./ No, perché la grammatica comporta una struttura, il catalogo no./ Chi te l'ha detto? / Il catalogo è ancora il momento puramente fenomeno logico descrittivo e invece la nostra scommessa è dopo la fenomenologia; questo è il punto, no?/ Non vogliamo fare un discorso su che cosa sono le grammatiche e qual è il rapporto fra le grammatiche?/ A mio parere il concetto di grammatica sta esattamente fra la catalogazione e l'ideologia, cioè, è la chiave di volta del passaggio da una catalogazione a una ideologia./ A me la parola ideologia pare una parola più angusta che non quella di grammatica./ La ideologia non comporta una grammatica./ L'ideologia comporta sempre una struttura./ Non necessariamente una grammatica./

Guardiamo un po' la situazione./ Appunto, sono io la situazione di cui mi sto occupando. L'idea di occuparmi della situazione è molto nobile, ma il lato oggettivo siamo ancora noi./ A me sembra che la rivista nascerebbe quale espressione di un gruppo./

, Ecco, su questo non sono molto sicuro, cioè noi abbiamo sicuramente delle esigenze comuni molto nette e abbiamo l'esigenza di discutere insieme perché sappiamo che le obiezioni che ciascuno di noi muoverà agli altri, saranno delle obiezioni utili. E quindi c'è un certo tipo di accordo anche nel disaccordo fra di noi. Io non sono certo che noi siamo un gruppo omogeneo, né mi pare ci sia bisogno di mettere avanti un altro gruppo omogeneo adesso. Non mi pare che sia neanche quello che ci interessa di più.

Non intendevo un gruppo omogeneo, intendevo gente che opera insieme con esigenze comuni pur con notevolissime divergenze sul piano della poetica individuale. Infatti: ci interessa: a) discutere insieme; b) lavorare ognuno per conto nostro; c) spesso lavorare l'uno con l'altro. Perché i nostri incontri non sono nati da un programma, sono nati proprio naturalmente. Queste tre cose possiamo continuare a farle con la rivista, se abbiamo voglia.

Questa deve essere una rivista settaria./ Direi che la caratteristica delle riviste di letteratura è di essere formata di pezzi che sono rivolti al lettore, cioè lo scrittore parla al lettore. Nel nostro caso noi parliamo fra di noi e ci facciamo sentire dagli altri./ Tornando al punto «dopo la fenomenologia», direi che dopo la catalogazione/ o descrizione/ c'è la definizione/ a noi interessa più definire.

Una cosa mi sembra piuttosto interessante: che in tutti i numeri della rivista ci sia un dibattito come questo che stiamo facendo: tanti temi che di volta in volta entrano e escono; questa discussione può essere la struttura di ogni numero della rivista./ Ogni numero è una discussione dal principio alla fine, in cui dentro c'è/ l'idea che noi avevamo pensato/ il dibattito può essere interrotto qua e là da un testo/ o proseguito dai testi./ Ne riparleremo.

Precisiamo un punto. Da qualche tempo si è affermato un sistema di lettura, un atteggiamento critico, a mio avviso creato dal fatto che la maggior parte delle persone che si occupano di letteratura non sanno scrivere, fondato sulla convinzione spesso esplicita che il centro su cui fare leva per procedere al giudizio dell'opera letteraria stia fuori dalla letteratura. A me pare di ravvisare questo atteggiamento anche in riviste culturalmente abbastanza aperte./ Vorrei citare una frase d'apertura del numero 78 di Aut-Aut, che mi sembra una epitome singolarmente felice di tutte le cose in cui non credo./ Comincia così: «Se la letteratura non è soltanto letteratura»;/ ora vorrei chiosare brevemente che tra i vari impulsi che hanno in qualche modo animato questo atteggiamento critico, c'è l'esigenza di fondo di rendere la letteratura una cosa virtuosa, una cosa che fa l'huomo migliore, l'uomo con l'h in principio; è tutto un fervore illuminativo, che è molto bello./ Continua l'editoriale di Aut-Aut: «la letteratura va ricondotta all'uomo e alla totalità dell'uomo». Ora questa è una cosa che mi diverte in una maniera estrema./ Questa idea della rivelazione integrale dell'uomo che avverrebbe nella letteratura, dato che la letteratura è molto bella, è molto nobile./

            Non è soltanto letteratura./

            Appunto, solo se non è soltanto letteratura, è umana, no?! La letteratura è molto umana./ «Non esiste per esempio una analisi sociologica - continua l'editoriale - che debba essere aggiunta dall'esterno all'opera d'arte. Poiché quest'ultima è per essenza umana e quindi storica e sociale»/ È di una bellezza incredibile, tutta questa furia di presentare alla società bene l'attraente ma impudica creatura. Dice: questa è mia figlia letteratura, questa è la mia figlia puttana, è vero, sì, però si fa chiavare soltanto dai cardinali, soltanto dai letterati di sinistra, serve soltanto a portare il solacium nelle fatiche mentali dei rivoluzionari; insomma, dice; non è mica una puttana come le altre, no? è tutta un'altra cosa./ Ora, io vorrei suggerire, per quel che mi riguarda, la tesi che non è affatto vero che la letteratura si riporti al problema dell'huomo, la letteratura in primo luogo è letteratura, cioè un gesto non solo arbitrario ma spesso anche abbondantemente vizioso: e io ritengo che nel vizio ci sia una grandissima invenzione della realtà. E che l'invenzione della realtà, non sia già il culmine della socialità, ma sia per l'appunto un gesto antisociale./

Ecco: non so fino a che punto concorderemo, socialmente noi possiamo benissimo fare a meno della letteratura, noi la facciamo semplicemente perché vogliamo farla, perché siamo licenziosi, sostanzialmente, sennò non faremmo della letteratura. Faremmo tutte le altre cose che fa la gente seria, e non scrive versi. Perché siamo dei viziosi, perché ci sono delle cose che ci piacciono e questa è la cosa sostanzialmente immorale. Perché non si devono mica fare le cose che piacciono/ a meno che non si possano fare impunemente./

Naturalmente però, prevale l'idea che la letteratura si può fare: a) se giova alla rivoluzione sociale; b) se giova alla conoscenza che l'uomo ha dell'uomo./ Ce lo immaginiamo l'uomo che conosce l'uomo? Secondo me ha circa quaranta anni, anche un po' di barba, nell'immagine c'è un certo tipo virile che si presuppone un po' classico, un po' manager, quello è l'uomo che conosce l'uomo, un po' dialettale, ma impettito, una incarnazione della colonna dorica. Ora, tutto questo ritengo che sia una estrema fatuità metodista./

Non sono con te quando parli di immoralità: io trovo morale, per uno che fa della letteratura o della pittura, non avere nessuno scopo/ la sua è una moralità egoistica e segreta./ D'accordo, ma se noi vogliamo sottrarci al ricatto umanistico da una parte e al ricatto marxista dall'altro (tutte forme di moralismo della letteratura), dobbiamo riconoscere la nostra inutilità sociale, la nostra schizofrenia rispetto al compatto (impatto) utilità-produttività./

Insomma, se ci domandano: a che cosa serve? Serve a migliorare? No, rispondiamo, dal vostro punto di vista non serve a niente/ in assoluto è anche vero che non serve a niente/ ma neanche l'universo serve a niente./ Perché questa è la domanda finale: a che cosa serve l'universo?/

A niente, niente./

Come cittadino ho occasionalmente delle funzioni, ma come scrittore non ho funzioni obbligatorie. Il fatto che io non mi proponga uno scopo agendo, non comporta che il mio agire sia un gioco; può essere anche difficile, tragico, il fatto che non posso propormi uno scopo. È questa la cosa./ Possiamo dire: qualcosa che è molto vicina al gioco, possiamo dire che l'artista è rimasto l'unico che esegue dei riti. E la caratteristica principale dei riti è quella di non servire assolutamente a niente, di essere oggetto del ridicolo da parte delle persone che invece fanno delle altre cose. Quindi l'ostinazione primaria dell'artista è quella di eseguire il suo proprio rito./ Rito, non è una parola troppo arcaica?

            Vediamo: il concetto di funzione usato, o no, consapevolmente da tutti coloro che cercano di trovare un centro della letteratura fuori della letteratura, è che la letteratura discorra di qualche cosa; quindi il problema fondamentale è di stabilire qual è il rapporto fra la letteratura e il qualche cosa di cui discutiamo. Ora se noi riteniamo, come io suggerisco, che gli universi sono universi linguistici, potremo dire che l'unica funzione propria dell'artista è quella di parlare o di prestare la propria capacità fonetica all'universo mutolo./ Il primo gesto dell'artista è quello di considerare l'universo come una grammatica arbitraria, che è per l'appunto il gesto che non possono fare gli ideologi di qualunque collocazione./ Grammatica è un universo ben preciso di cui si tiene discorso in un determinato linguaggio ma non v'è alcun dubbio che esso sia un centro stabile al di fuori dello scorrere dei linguaggi./ Tu cosa dici?

            /Starei attento: questa veduta è possibile soltanto dopo una chiara scelta politica. Esiste anche un linguaggio capitalistico e io questo linguaggio, per esempio, lo identifico e lo rifiuto./ No, tu fai un'operazione tipicamente linguistica che interessa te; che poi in questa tua operazione tu compia certe scelte per altri motivi esterni ai tuoi, non importa niente. Tu fai un'operazione e mentre fai questa operazione (che è di ricerca) tu non devi pensare: questo non lo prendo perché è nazista, questo lo prendo perché socialmente buono./ Già, allora secondo te magari lo prendo, ma lo prendo perché è nazista non sapendo che lo è.

            Tu fai un'operazione linguistica, non fai un'operazione sociale e storica. E tu rifiuti il linguaggio capitalistico, non perché è capitalistico, ma in quanto è inabitabile./

            Può essere, ma per me il problema in qualche modo resta: in teoria, concordo con voi, è uno pseudo problema, ma in pratica impiccia. C'è un altro punto: sono convinto che all'interno di questo parlare per se stessi c'è una destinazione dialogo, anche con degli esseri inesistenti. Tu scegli di eseguire il rito e quindi fai un atto linguistico perché pensi che valga come tale, perché ti interessa di farlo, perché ti piace di farlo. Le motivazioni non hanno importanza. Però è chiaro che a questo rito in qualche modo tu dai un significato, un senso: e questo senso è fruibile da parte di altri. Se quel rito serve, quel rito che tu fai per qualsivoglia ragione, ti accorgi che serve, che tu quindi servi, poniamo, a mantenere il potere del capo stregone che di fatto è un figlio di puttana, allora il rito, vedi, - il tuo rito linguistico cade fuori dal letto di rose./ Intendiamoci: ciò non cambia l'essenza linguistica del rito, ma allora è il rito che si degrada per non servire, eccetera, eccetera, tutte storie che sappiamo./

            Io dico: mentre scrivi questa cosa, a te serve preoccuparti di come questa cosa verrà fruita?/ La fruizione è un elemento del rito./ Se è un elemento del rito, allora si potrebbe adoperare quella formula che tu hai usato poco fa: la letteratura è un rito dedicato a fruitori inesistenti, cioè la fruibilità è un carattere del rito ma che si rivolga o no a esseri esistenti, è del tutto irrilevante./ Anche questo è giusto, ma già si sapeva da quando siamo piccoli./ È irrilevante su un piano, ma può essere rilevante su un altro./

            Il problema è quello del consumo. Non è un problema semplice. Noi operiamo in una società che ci chiede cose da consumare e subito. Questo è il punto. Io credo che noi non operiamo per quello che si chiama il rapido consumo./

Giusto, però non si può operare non tenendo conto del rapido consumo. Io credo che noi operiamo per un consumo lentissimo, il più lento possibile. Noi poniamo come determinante del nostro lavoro e della condizione del nostro lavoro una lentezza, un rallentamento quasi totale./

Riprendendo l'accenno, mi sembra ghiotto, alla velocità e alla lentezza del consumo, direi questo, che il problema non è specifico. Per lo meno non è limitato alle sole opere d'arte. Qualunque forma di organizzazione mentale ha questo problema della velocità con cui viene recepito il suo prodotto; e direi che la più ovvia, la più rozza, la più elementare, paleolitica obiezione da porre a tutti gli ideolegislatori della letteratura è proprio questa: loro domandano alla letteratura a che cosa serve adesso. Cioè a loro non passa neanche lontanamente davanti agli occhi la possibilità che nel tempo il consumo dell'opera divenga completamente diverso da quello che operano loro./ Ritorno a quell'immagine, che a me piace molto, appunto dei lettori inesistenti. Non posso mai proporre un giudizio utilizzando i lettori esistenti, perché essi sono una piccola parte dei lettori con cui in realtà io entro in contatto. Ci sono, quindi, come ci sono discorsi veloci, che vengono consumati e buttati via immediatamente, discorsi estremamente lenti. Tanto più grande è il numero dei lettori inesistenti a cui mi rivolgo e tanto più impossibile è apprezzare, utilizzando il lettore esistente, il valore, il senso di quell'opera in particolare./

Noi non siamo della teoria che il libro si fa, lo si stampa e poi lo si butta via: Cioè, proprio il contrario, proprio l'opposto. Noi siamo per un libro un quadro che si fa, si mette da parte e si continua a leggere. Questa è la nostra scommessa./ L'avanguardia come «resistenza»; ecco il punto./

Approfondendo veramente la teoria del consumo si aprirebbero chissà quanti spiragli. C'è, per esempio, un mercato dei consumi come c'è un mercato contro i consumi./

    Forse c'è un mercato della carne solo perché la carne è l'uomo che crede al rapido consumo?  

 

 


Nota

Trascrizione di una discussione registrata su nastro. Partecipavano: Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Giorgio Manganelli, Gastone Novelli, Elio Pagliarani, Achille Perilli.


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