pagina della Nuova Tèchne di Paolo Albani

Edgardo Franzosini
JOSÉ TURMIEDA CASTRO

           

    Un anno fa moriva, nella sua casa di La Coruña, lo scrittore José Turmieda Castro. Poche riviste e rari quotidiani hanno registrato l'avvenimento. Eppure José Turmieda Castro era stato, nel decennio tra la metà degli anni 80 e la metà degli anni 90 del secolo scorso, uno scrittore, se non famoso, noto. Solido autore di quel tipo di opere che, in mancanza di una parola migliore, come direbbe Roberto Bolaño, potremmo chiamare: “biografie non immaginarie”, aveva esordito con Vida de Louis Bertrand Castel storia di un misconosciuto abate francese vissuto all'inizio del Settecento inventore del “clavicembalo oculare”, lo strumento concepito per creare armonia tra il suono e il colore con il fine di poter procurare simultaneamente nel pubblico il piacere degli occhi e il piacere delle orecchie. Il libro, scritto già con quello stesso scrupolo di verità, con quello stesso rigore, con quella stessa ossessione per il dettaglio biografico con cui Turmieda Castro comporrà tutte le sue opere, passò inosservato. Tre anni dopo lo scrittore di La Coruña pubblicava un'altra biografia, quella di Federico Mompou: Retrato Callado. L'esistenza del musicista catalano, la cui riservatezza in vita era stata proverbiale, veniva raccontata − sulla base di alcuni documenti sino ad allora inediti, e delle testimonianze di un paio di colleghi di Mompou, ai quali Turmieda Castro era riuscito, non si sa come, a strappare qualche confidenza − con la solita ammirevole precisione ed esattezza. Questa volta il libro fu accolto con discreto interesse, soprattutto nella cerchia degli appassionati musicofili, e venne perfino tradotto in due paesi europei, la Francia e il Portogallo, da due piccole e coraggiose case editrici di settore. Nel 1984 Turmieda Castro dava alle stampe La puesta del sol, in cui ricostruiva la vita di August Karl von Ufer, e stavolta per lo scrittore galiziano fu il successo. Pittore originario di Dresda, nato nel 1850 e morto alla vigilia della seconda guerra mondiale, von Ufer era, sino all'uscita del libro di Turmieda Castro, conosciuto solo da un ristretto numero di specialisti (i lettori forse ricordano che sull'onda delle vendite e dei riconoscimenti che la biografia si guadagnò, vennero poi organizzate in quegli anni un certo numero di mostre delle sue opere, forse anche per via della relativa difficoltà che l'allestimento richiedeva, in tutte le maggiori capitali europee, oltreché a New York, Boston, Santiago del Cile e Tokio). Autore di solo 7 opere di piccole dimensioni (4 dipinti misurano 60 x 90, 3 misurano 50 x 40) von Ufer era stato uno degli artisti più singolari e curiosi che la storia della pittura europea, tra XIX° e XX° secolo, avesse annoverato. Come scrisse in un passo del suo libro Turmieda Castro: “Ciò che vedeva in un paesaggio e ciò che riusciva a riprodurre nei suoi quadri era stupefacente. I suoi occhi avevano la potenza di un microscopio, le sue mani la precisione di un apparecchio fotografico”. Esempio lodevole di prodigiosa coscienziosità e di stupefacente pazienza, von Ufer nel comporre un'opera teneva conto di tutto, e tutto riproduceva con accanita puntigliosità. Nessun dettaglio, nemmeno il più piccolo, il più irrilevante lo scoraggiava. Quanto allo scrupolo di verità basterebbe accennare a un episodio riportato da Turmieda Castro e legato alla composizione del penultimo quadro di von Ufer: Der Brauer in cui è raffigurato un birraio dall'aria mortificata al quale, nel tentativo di scaricarla da un carretto, è caduta al suolo, fracassandosi, una botte piena di birra. Opera che impegnò von Ufer per parecchi anni, e per la quale, al fine di riprodurre con meticolosa perfezione e nella maniera più vera le striature di colore, i riflessi e le sfumature di luce che prende la birra in quelle circostanze, nonché il tipo di bollicine di schiuma che si viene formando sulla sua superficie, il pittore di Dresda non esitò a spargere ogni mattina e per 11 mesi sul pavimento di ceramica del proprio studio, dai quindici ai venti litri di quella bevanda. In un'intervista Turmieda Castro confessò qualche tempo dopo che, venire a contatto con l'opera e la figura di von Ufer, se non gli aveva insegnato un metodo nuovo, lo aveva certamente aiutato, disse: « A perfezionarne uno che, già per mio conto, conoscevo e applicavo». Poi quello straordinario autore di biografie da cui pubblico e critica attendevano, per la definitiva consacrazione, l'opera della maturità, sembrò scomparire nel nulla. Più nessuna intervista sui giornali, sulle riviste o alla radio; più nessuna apparizione in tivù. Soprattutto più nessuna nuova opera in libreria (La puesta del sol arrivò peraltro alla ventitreesima ristampa). Si fecero le solite supposizioni: una grave malattia, un infortunio accidentale e invalidante, un rifiuto improvviso, netto e incoercibile per le cose letterarie. Sino alla notizia della sua morte che sembrò mettere la parola fine non soltanto a tutte le illazioni, ma anche a tutte le curiosità sulle ragioni di quell'inspiegabile “silenzio”. Se qualche settimana or sono mi sono spinto sino al bella casa di La Coruña, elegante ma senza nessun lusso, in cui José Turmieda Castro ha vissuto in compagnia della moglie, donna Ines Arconada, gli ultimi quarantanni della sua vita, è stato perché ritengo che non ci sia niente di più malinconico, ma anche di più drammatico, di una carriera lasciata a metà (motivo per cui, ad esempio, non mi è mai sembrata del tutto convincente la storia dei “due Rimbaud”, entrambi meritevoli, secondo alcuni, della stessa devota venerazione: quello che ha scritto le sue poesie e quello che ha disdegnato di scriverle).

            Ines Arconada è alta, longilinea, i capelli fini e lisci ancora nerissimi, gli occhi vivaci, il sorriso dolce, accuratissima nel vestire. Mi riceve in quello che fu lo studio del marito, una lunga stanza rettangolare da cui traspare lo stesso ordine, la stessa calma che trapelava dai suoi libri. «Penso di indovinare il motivo della sua visita» mi dice, lo sguardo rivolto ad un grande oblò che illumina lo studio. «Lei vorrebbe sapere, immagino, per quale motivo mio marito, dopo il più che lusinghiero successo di quella sua biografia, non pubblicò o non fu in grado di pubblicare più nulla. La risposta è semplice: José è rimasto vittima del proprio zelo».

            La vedova di Turmieda Castro si liscia con una mano i capelli, poi aggiunge: «Tutto iniziò durante un viaggio che io e mio marito compimmo a Taiwan − era appena uscita la traduzione in mandarino di La puesta del sol. Il terzo o il quarto giorno, nel corso di un'escursione nel nord-ovest dell'isola, l'uomo che ci accompagnava e che ci faceva da autista ma anche da guida, ci propose una digressione dal programma stabilito. Vorrei mostrarvi Mai Liao, disse senza altre spiegazioni. Acconsentimmo. Mai Liao era una piccola città portuale, incredibilmente sporca e sovraffollata. Abitazioni grige, grandi fabbriche, empori chiassosi. Non riuscimmo a comprendere il motivo di quella sosta, fino al momento in cui, nei pressi del porto, non ci trovammo di fronte ad una strana costruzione: una gigantesca semisfera alta almeno 130 metri e costituita da una una fitta rete di tubi in acciaio. I tubi formavano, intersecandosi, migliaia di figure triangolari. Liang, così si chiamava la nostra guida, o forse Wang, l'ho dimenticato, ci disse, con un'evidente punta d'orgoglio nel tono della voce, che quella era una delle cupole geodetiche più grandi mai realizzate. Ce ne sono a decine, disse, sparse per tutto il mondo. Né mio marito, né io avevamo idea di cosa potesse essere una cupola geodetica. Liang ci spiegò allora, nel suo lento spagnolo, che la cupola geodetica si poteva definire: “l'unica struttura creata dall'uomo che diventi proporzionalmente più resistente con l'aumentare delle sue dimensioni”. Inventore di quella costruzione era, disse, un americano: Richard Buckminster Fuller. Credo che José decise quello stesso giorno, anzi forse proprio in quello stesso momento, davanti a quella specie di mammellone d'acciaio, e non me ne chieda il motivo, che Buckminster Fuller sarebbe diventato il soggetto della sua prossima biografia. Decisione su cui, ahimè, non volle mai più ritornare. Di lì a due o tre giorni lasciammo Taiwan e rientrammo in Spagna. José si mise subito al lavoro. Ovviamente con il solito strenuo impegno, con la solita spasmodica applicazione. Lo stesso impegno, la stessa applicazione con cui aveva scritto, del resto, le precedenti biografie. Cercando cioè, innanzitutto, di avere accesso e di raccogliere tutti i documenti, tutte le testimonianze che riguardavano in qualche modo, direttamente o indirettamente, la persona la cui vita si apprestava a raccontare. Con questa differenza: se l'abate Castel, Mompou e von Ufer avevano lasciato dietro di sé poche, impercettibili tracce, la stessa cosa non si poteva dire per il creatore della cupola geodetica. Richard Buckminster Fuller era stato, la sua morte risaliva circa a un decennio prima, non soltanto un inventore, ma anche un architetto, uno scrittore, uno scienziato, un filosofo, un docente, un costruttore di prototipi di automobili e persino un conduttore televisivo».

            «Una vita piena, ricca, come si dice in questi casi».

         «Esattamente. Una vita segnata dall'irrequietezza e dall'eclettismo. Ma non furono l'eclettismo, l'intraprendenza di Buckminster Fuller a costituire uno scoglio, un impedimento, per José. Fu un'altra la circostanza che rese tremendamente difficile, tremendamente complicato, e alle fine impossibile, il suo compito».

            «Quale circostanza?» domando.

      «Una circostanza...» dice donna Ines, e il tono della sua voce si è impercettibilmente alterato «Il cui peso forse non si riesce a comprendere nella sua giusta misura, a comprendere fino in fondo se si dimentica che José Turmieda Castro è stato non solo uno scrittore terribilmente severo verso se stesso, ma anche uno dei biografi più fedeli alla propria idea di biografia. “La realtà ha sempre molto più talento di noi” ripeteva spesso, e non so se fossero parole sue o di uno scrittore francese, con cui aveva avuto occasione di scambiare nei primi anni ottanta un certo numero di lettere. “Per quale ragione” aggiungeva “dannarsi ad inventare? A immaginare?”».

        «Quale circostanza?» dico di nuovo, mentre un soffio di vento improvviso fa tremare i vetri dell'oblò.

         «Semplice. Fu venire a conoscenza della decisione presa da Buckminster Fuller verso il 1915, o il 1916, nel momento in cui insomma compiva più o meno vent'anni...».

            «E cioè?» domando, impaziente.

          «L'incredibile decisione di documentare la propria vita nella maniera più completa, più assoluta. Con un'ostinazione tenace ma anche un po' perversa, se me lo consente. “Documentarla ogni 15 minuti” come dichiarò poi lui stesso. Raccogliendo e conservando qualsiasi cosa avesse a che fare con essa. Vale a dire oltre a tutta la sua corrispondenza, e quindi le lettere e le cartoline che riceveva e le minute delle lettere che a sua volta spediva, oltre ai quaderni, ai block-notes e ai fogli d'appunti che riempiva, oltre agli articoli che pubblicava sui giornali e sulle riviste, oltre ai libri che dava alle stampe, oltre agli articoli e ai saggi che parlavano di lui e della sua attività, oltre a tutti i documenti notarili e amministrativi che lo riguardavano, oltre alle fotografie e ai filmati televisivi e cinematografici in cui compariva, oltre alle bobine magnetiche su cui si poteva udire la sua voce, oltre a quello che si può chiamare l'ordinaria amministrazione di un'esistenza non così ordinaria...».

            Donna Ines si interrompe. Sembra riprendere per un attimo fiato.

       «Oltre a tutto questo» ricomincia «Buckminster Fuller decise di conservare anche tutti i biglietti ferroviari, tutti i biglietti d'aereo, tutti i biglietti del tram o dell'autobus, che andava via via utilizzando, nonché tutte le ricevute, le fatture, le bolle di consegna, gli scontrini, tutte le ricette mediche, i referti clinici e le radiografie, tutte le matrici di assegni, tutte le piantine delle città e tutte le carte geografiche di cui si era servito durante i suoi viaggi, eccetera, eccetera eccetera… Capisce?».

            «Certo...» annuisco.

            «Niente che riguardasse la sua vita era accessorio, era futile per lui...» dice la vedova di Turmieda Castro con aria scoraggiata. «E quel mostruoso ammasso di documenti si trovava, Josè lo seppe di lì a poco, diligentemente raccolto e catalogato in un archivio, a Stanford in California, a disposizione di quanti, ricercatori o semplici curiosi, fossero interessati a esaminarlo, e in attesa soprattutto, mi vien da dire, che qualcuno accettasse la sfida di prendere visione di tutti quei... come chiamarli? Di tutti quei reperti. Che decidesse di studiarli, dal primo all'ultimo, di analizzarli, di confrontarli tra loro, di vagliarli, di scegliere quelli utili e significativi... In questo modo, come lei sa meglio di me, si scrivono le biografie... Inutile aggiungere, l'avrà già capito, che José accettò la sfida e si condannò a questo lavoro immane. La sua esistenza da quel momento diventò una sorta di volontaria reclusione, consumata perlopiù tra le pareti di questo studio e interrotta solo da qualche inevitabile soggiorno, all'inizio di breve durata, poi sempre più lungo, a Stanford, in mezzo a quel labirinto di scaffali. È stato l'assillo dei suoi ultimi ventidue anni di vita: raccontare la storia di Richard Buckminster Fuller, come la sua coscienza gli imponeva di raccontarla. E cioè in modo tale che tutti i fatti presi in esame fossero veri, che tutti i documenti fossero citati alla lettera, che qualsiasi dato fosse esattamente conforme alla realtà...».

            Dopo qualche attimo di scomodo silenzio Ines Arconada dice: «Lei a questo punto vorrebbe che le mostrassi il frutto di quel suo lavoro, le sue carte...».

            «Sì» mi permetto di mormorare.

            «Stavano tutte in quei due armadi». Mi indica due mobili pesanti con fregi in legno scolpito appoggiati contro una parete.

            «Ma, secondo una precisa volontà di mio marito, dopo la sua morte le ho bruciate. Le basterà sapere che, com'era forse prevedibile, quel cumulo di informazioni si è rifiutato di organizzarsi secondo un'ordine, di obbedire ad una prospettiva... Ciò non toglie che fino all'ultimo a quel compito José si è votato... È curioso come la vita di un uomo diventi proporzionalmente più resistente, cioè più impenetrabile, con l'aumentare delle informazioni che disponiamo su di essa. Più di una volta ho implorato José di desistere. Ha respinto le mie preghiere con indignazione...».

          Il nostro incontro è ormai terminato, e quella donna così piena di fascino e di cortesia mi accompagna alla porta. Nuvole grige hanno coperto il cielo di La Coruña. Prima di congedarmi definitivamente mi dice: «Mio marito comunque è morto felice, sereno. Con la consapevolezza di avere fatto fino in fondo il proprio dovere. Non è facile comprendere, per noi gente comune, quali misteriose e squisite consolazioni dispensi l'arte agli artisti, anche nelle circostanze più difficili».

            Mentre mi allontano sotto i primi goccioloni, camminando rasente a una siepe di cinta, penso a Turmieda Castro, penso a Richard Buckminster Fuller, penso alle decine e decine di cupole geodetiche che sono sparse per il mondo.

 


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Il testo è compreso nel n. 25, 2016 della rivista Nuova Tèchne.
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