Edgardo Franzosini
JOSÉ TURMIEDA CASTRO
Ines
Arconada è alta, longilinea, i capelli fini e lisci ancora nerissimi, gli occhi
vivaci, il sorriso dolce, accuratissima nel vestire. Mi riceve in quello che fu
lo studio del marito, una lunga stanza rettangolare da cui traspare lo stesso
ordine, la stessa calma che trapelava dai suoi libri. «Penso di indovinare il motivo della sua visita» mi dice, lo
sguardo rivolto ad un grande oblò che illumina lo studio. «Lei vorrebbe sapere,
immagino, per quale motivo mio marito, dopo il più che lusinghiero successo di
quella sua biografia, non pubblicò o non fu in grado di pubblicare più nulla.
La risposta è semplice: José è rimasto vittima del proprio zelo». La vedova
di Turmieda Castro si liscia con una mano i capelli, poi aggiunge: «Tutto
iniziò durante un viaggio che io e mio marito compimmo a Taiwan − era appena
uscita la traduzione in mandarino di La puesta del sol. Il terzo o il
quarto giorno, nel corso di un'escursione nel nord-ovest dell'isola, l'uomo che
ci accompagnava e che ci faceva da autista ma anche da guida, ci propose una
digressione dal programma stabilito. Vorrei mostrarvi Mai Liao, disse senza
altre spiegazioni. Acconsentimmo. Mai Liao era una piccola città portuale,
incredibilmente sporca e sovraffollata. Abitazioni grige, grandi fabbriche,
empori chiassosi. Non riuscimmo a comprendere il motivo di quella sosta, fino
al momento in cui, nei pressi del porto, non ci trovammo di fronte ad una
strana costruzione: una gigantesca semisfera alta almeno 130 metri e costituita
da una una fitta rete di tubi in acciaio. I tubi formavano, intersecandosi,
migliaia di figure triangolari. Liang, così si chiamava la nostra guida, o
forse Wang, l'ho dimenticato, ci disse, con un'evidente punta d'orgoglio nel
tono della voce, che quella era una delle cupole geodetiche più grandi mai
realizzate. Ce ne sono a decine, disse, sparse per tutto il mondo. Né mio
marito, né io avevamo idea di cosa potesse essere una cupola geodetica. Liang
ci spiegò allora, nel suo lento spagnolo, che la cupola geodetica si poteva
definire: “l'unica struttura creata dall'uomo che diventi proporzionalmente più
resistente con l'aumentare delle sue dimensioni”. Inventore di quella
costruzione era, disse, un americano: Richard Buckminster Fuller. Credo che José
decise quello stesso giorno, anzi forse proprio in quello stesso momento,
davanti a quella specie di mammellone d'acciaio, e non me ne chieda il motivo,
che Buckminster Fuller
sarebbe diventato il soggetto della sua prossima biografia. Decisione su cui,
ahimè, non volle mai più ritornare. Di lì a due o tre giorni lasciammo Taiwan e
rientrammo in Spagna. José si mise subito al lavoro. Ovviamente con il
solito strenuo impegno, con la solita spasmodica applicazione. Lo stesso
impegno, la stessa applicazione con cui aveva scritto, del resto, le precedenti
biografie. Cercando cioè, innanzitutto, di avere accesso e di raccogliere tutti
i documenti, tutte le testimonianze che riguardavano in qualche modo,
direttamente o indirettamente, la persona la cui vita si apprestava a
raccontare. Con questa differenza: se l'abate Castel, Mompou e von Ufer avevano
lasciato dietro di sé poche, impercettibili tracce, la stessa cosa non si
poteva dire per il creatore della cupola geodetica. Richard Buckminster Fuller era stato, la sua morte risaliva
circa a un decennio prima, non soltanto un inventore, ma anche un architetto,
uno scrittore, uno scienziato, un filosofo, un docente, un costruttore di
prototipi di automobili e persino un conduttore televisivo». «Una vita
piena, ricca, come si dice in questi casi». «Esattamente.
Una vita segnata dall'irrequietezza e dall'eclettismo. Ma non furono
l'eclettismo, l'intraprendenza di Buckminster Fuller a costituire uno scoglio,
un impedimento, per José. Fu un'altra la circostanza che rese tremendamente
difficile, tremendamente complicato, e alle fine impossibile, il suo compito». «Quale
circostanza?» domando. «Una
circostanza...» dice donna Ines, e il tono della sua voce si è
impercettibilmente alterato «Il cui peso forse non si riesce a comprendere
nella sua giusta misura, a comprendere fino in fondo se si dimentica che José
Turmieda Castro è stato non solo uno scrittore terribilmente severo verso se
stesso, ma anche uno dei biografi più fedeli alla propria idea di biografia. “La
realtà ha sempre molto più talento di noi” ripeteva spesso, e non so se fossero
parole sue o di uno scrittore francese, con cui aveva avuto occasione di
scambiare nei primi anni ottanta un certo numero di lettere. “Per quale
ragione” aggiungeva “dannarsi ad inventare? A immaginare?”». «Quale
circostanza?» dico di nuovo, mentre un soffio di vento improvviso fa tremare i
vetri dell'oblò. «Semplice.
Fu venire a conoscenza della decisione presa da Buckminster Fuller verso il 1915, o il 1916, nel
momento in cui insomma compiva più o meno vent'anni...». «E cioè?»
domando, impaziente. «L'incredibile
decisione di documentare la propria vita nella maniera più completa, più
assoluta. Con un'ostinazione tenace ma anche un po' perversa, se me lo
consente. “Documentarla ogni 15 minuti” come dichiarò poi lui stesso.
Raccogliendo e conservando qualsiasi cosa avesse a che fare con essa. Vale a
dire oltre a tutta la sua corrispondenza, e quindi le lettere e le
cartoline che riceveva e le minute delle lettere che a sua volta spediva, oltre
ai quaderni, ai block-notes e ai fogli d'appunti che riempiva, oltre agli
articoli che pubblicava sui giornali e sulle riviste, oltre ai libri che dava
alle stampe, oltre agli articoli e ai saggi che parlavano di lui e della sua
attività, oltre a tutti i documenti
notarili e amministrativi che lo riguardavano, oltre alle fotografie e
ai filmati televisivi e cinematografici in cui compariva, oltre alle bobine
magnetiche su cui si poteva udire la sua voce, oltre a quello che si può chiamare
l'ordinaria amministrazione di un'esistenza non così ordinaria...». Donna Ines
si interrompe. Sembra riprendere per un attimo fiato. «Oltre a
tutto questo» ricomincia «Buckminster Fuller decise di conservare anche
tutti i biglietti ferroviari, tutti i biglietti d'aereo, tutti i biglietti del
tram o dell'autobus, che andava via via utilizzando, nonché tutte le ricevute,
le fatture, le bolle di consegna, gli scontrini, tutte le ricette mediche, i
referti clinici e le radiografie, tutte le matrici di assegni, tutte le
piantine delle città e tutte le carte geografiche di cui si era servito durante i suoi viaggi, eccetera, eccetera
eccetera… Capisce?». «Certo...»
annuisco. «Niente che
riguardasse la sua vita era accessorio, era futile per lui...» dice la vedova
di Turmieda Castro con aria scoraggiata. «E quel mostruoso ammasso di documenti
si trovava, Josè lo seppe di lì a poco, diligentemente raccolto e catalogato in
un archivio, a Stanford in California, a disposizione di quanti, ricercatori o
semplici curiosi, fossero interessati a esaminarlo, e in attesa soprattutto, mi
vien da dire, che qualcuno accettasse la sfida di prendere visione di tutti
quei... come chiamarli? Di tutti quei reperti. Che decidesse di studiarli, dal
primo all'ultimo, di analizzarli, di confrontarli tra loro, di vagliarli, di
scegliere quelli utili e significativi... In questo modo, come lei sa meglio di
me, si scrivono le biografie... Inutile aggiungere, l'avrà già capito, che José
accettò la sfida e si condannò a questo lavoro immane. La sua esistenza da quel
momento diventò una sorta di volontaria reclusione, consumata perlopiù
tra le pareti di questo
studio e interrotta solo da qualche inevitabile soggiorno, all'inizio di
breve durata, poi sempre più lungo, a Stanford, in mezzo a quel labirinto di
scaffali. È stato l'assillo dei suoi ultimi ventidue anni di vita: raccontare
la storia di Richard Buckminster Fuller, come la sua coscienza gli imponeva di
raccontarla. E cioè in modo tale che tutti i fatti presi in esame fossero veri,
che tutti i documenti fossero citati alla lettera, che qualsiasi dato fosse
esattamente conforme alla realtà...».
Dopo
qualche attimo di scomodo silenzio Ines Arconada dice: «Lei a questo
punto vorrebbe che le mostrassi il frutto di quel suo lavoro, le sue carte...». «Sì» mi
permetto di mormorare. «Stavano
tutte in quei due armadi».
Mi indica due mobili pesanti con fregi in legno scolpito appoggiati contro una
parete. «Ma, secondo una precisa volontà di mio marito, dopo la sua morte le ho bruciate. Le basterà sapere che, com'era forse prevedibile, quel cumulo di informazioni si è rifiutato di organizzarsi secondo un'ordine, di obbedire ad una prospettiva... Ciò non toglie che fino all'ultimo a quel compito José si è votato... È curioso come la vita di un uomo diventi proporzionalmente più resistente, cioè più impenetrabile, con l'aumentare delle informazioni che disponiamo su di essa. Più di una volta ho implorato José di desistere. Ha respinto le mie preghiere con indignazione...». Il nostro incontro è ormai terminato, e quella donna così piena di fascino e di cortesia mi accompagna alla porta. Nuvole grige hanno coperto il cielo di La Coruña. Prima di congedarmi definitivamente mi dice: «Mio marito comunque è morto felice, sereno. Con la consapevolezza di avere fatto fino in fondo il proprio dovere. Non è facile comprendere, per noi gente comune, quali misteriose e squisite consolazioni dispensi l'arte agli artisti, anche nelle circostanze più difficili». Mentre mi allontano sotto i primi goccioloni, camminando rasente a una siepe di cinta, penso a Turmieda Castro, penso a Richard Buckminster Fuller, penso alle decine e decine di cupole geodetiche che sono sparse per il mondo.
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Il testo è compreso nel n. 25, 2016 della rivista Nuova Tèchne. Per tornare al sommario del n. 25 della rivista cliccate qui. __________________________ |