Antonio Delfini
RACCONTO NON FINITO. PREMESSA. Il racconto che segue è
stato scritto tra il '40 e il '42.
Qualche capitoletto è già stato pubblicato, prima del 25 luglio 1943, in varie riviste letterarie. In un primo tempo si intitolò Racconto triste; in seguito coll'andare degli anni, persuadendomi dell'impossibilità di continuare una cosa verso la quale non portavo più alcun interesse, ma soltanto il pregiudizio di un dovere che sapevo di non voler compiere, il titolo è stato mutato in quello definitivo di non finito. Ecco come nel 1935 (il giorno della grande adunata per la guerra d'Abissinia) trovai il primo pretesto per scrivere questo racconto che iniziai soltanto cinque anni dopo. Anch'io ero andato alla grande adunata, a V., nella vasta piazza delle giostre, insieme al grande scrittore versiliese Enrico Pea. Tanto per non fare compromissioni politiche, dirò subito che ci tenevamo in disparte, nel fondo della piazza, dalla parte di via Garibaldi. Poco lontano da noi, ma più avanzata verso l'interno della piazza, stava (insieme, credo, a sua madre) una delle più belle ragazze che avessi mai notato fino allora. Anzi, dichiarai subito a me stesso che era la più bella e la più cara donna che avessi visto: e qualche istante dopo (all'inizio del discorso: erano cessati gli inni e già si udiva la storica voce) avevo deciso di esserne innamorato. Non meditavo né le parole della radio, né quelle di Pea, che mi stava dicendo cose certamente interessanti di commento al discorso e all' avvenire del nostro Paese. Io stesso, fino a pochi minuti prima, ero stato impazientissimo di udire il discorso. Tutta l'Italia, tutto il mondo, erano impazienti per quel discorso: fascisti e antifascisti del globo intero fremevano perché volevano trarne gli auspici (troppo presto!) per il destino politico del mondo. Io invece andavo pensando al modo migliore di avvicinare quella persona meravigliosa, che mi aveva tolto all'improvviso ogni interesse politico e storico: volevo sposarla. Ma, quando la grande adunata si andava sciogliendo tra i canti di guerra, io ero diventato muto e triste come un cane bastonato. Pea, credendo che mi fossi rattristato per la guerra inevitabile, mi rassicurava dicendo che tanto a me non mi avrebbero chiamato alle armi. Durante la radio-audizione mi ero persuaso pessimisticamente che la mia bella fosse promessa sposa: essa era alla grande adunata per sapere se gli avrebbero o no preso il fidanzato. Più avanti, andando a casa, e solo, mi pareva di essere qualcuno che non ricordavo e che mi era assai famigliare. Chi era? Lo ravvisai in un giovane magro e triste, modesto e goffo, conosciuto e visto una volta sola in vita mia. Ma non potei ricordare come lo chiamassero. Eravamo nel 1914, prima che scoppiasse la guerra, poco prima, forse, di Serajevo. Noi stavamo a un tavolo del Caffè Margherita e si mangiava un magnifico gelato di pesca, albicocca e fragola con dentro dei frutti rossi. Io avevo sei anni. Intorno a me c'era molta gente. Belle e brutte, giovani e vecchie le signore, ma tutte eleganti. C'era un conte francese, gli ufficiali di vascello del Balipedio, il conte B. il maggior organizzatore di feste che abbia mai avuto l'Italia; c'era uno che doveva poi diventare un buon giornalista, ma che allora aveva pubblicato soltanto un opuscolo di orribili poesie. Il chiacchiericcio era spaventoso, e io mi sforzavo di ascoltar tutto. L'orchestra veniva soffocata dall'animazione della gente. C'era anche mia cugina che allora avrà avuto vent' anni e che era corteggiatissima: i suoi corteggiatori erano, tra gli altri, un principe napoletano e un avvocatino che doveva poi diventare deputato fascista. Insomma, tutti si divertivano e io mi annoiavo moltissimo, ma riuscivo a rasserenarmi gustando lentamente il delizioso gelato. Uno degli ufficiali di vascello disse a un tratto: «Non volevate conoscere quell'ufficiale di capitaneria ... quello che ... ?» «Sì, sì lo vogliamo conoscere», rispose qualche signora, con falso interesse e monotona ironia. «Da tanti anni sta a V. quel poveraccio! » disse un altro. «Ma è quello che non fa carriera! Lo ricordo tanti anni fa... Dicevano che voleva ammazzarsi per amore. Poveretto!, non va con le donne...» Allora il mondo era abbastanza fine, e mi ricordo che nessuno rise alla frase di quel signore, il quale era un terriero del pisano o dell'aretino. Le signore ripresero il loro chiacchiericcio; e, quando il magro e triste ufficiale, chiamato da uno di vascello, venne al nostro tavolo, gli mostrarono un minimo interesse, che allora significava non volerlo conoscere. Un tale fu volgarissimo: gli rammentò la signorina Hal ... sposata Sr. Era tanto pallido il poveretto, e cosi delicato! Pure io vi notai un minimo rossore affiorare sulle guance. Era alto e bruno: parlava come un bolognese che si sforza di esprimersi non con accento, ma con forma toscana. Era timido. Quando se ne andò, si era già fatto dimenticare dalle signore, e non le salutò per non disturbarle. A pezzi e bocconi appresi poi, dalle chiacchiere degli eleganti signori, la storia del suo amore. Ma non era una storia... Fonte: Antonio Delfini, «Racconto non finito», in Autore ignoto presenta. Racconti scelti e introdotti da Gianni Celati, Einaudi, Torino, 2008, pp. 177-204. La «Premessa» è alle pp. 177-179. |