pagina del sito della Nuova Tèchne di Paolo Albani

Andrea Cortellessa
RECENSIONE A
Luigi Malerba, Profili, introduzione di Paolo Mauri,
Archinto 2012, pp. 112, € 14.


 

    Su una pagina del numero 79 di «alfabeta», dicembre 1985, facevano la loro comparsa undici disegni di Luigi Malerba. In uno, due strappi alla regola. Allora come oggi, infatti, la rivista di norma non recava «illustrazioni», ma le immagini facevano parte di serie coerenti, ogni volta diverse. E soprattutto non apparteneva, Malerba, alla tradizione dei poeti visivi e combinatorî, né a quella degli scrittori che coltivino pennello o carboncino come proprio violon d’Ingres, né tantomeno alla stirpe rara degli artisti in utroque. Diciamo pure, anzi, che a disegnare era proprio negato. Lo diceva lui stesso, che il suo è «non l’o di Giotto ma lo zero di Malerba»: prossimi com’erano, quei disegni, a un ideale «grado zero» della manualità.

    Il fatto è che non erano propriamente «disegni» bensì, come li chiamava lui, «profili». Per lo più presenze d’uso quotidiano sulla sua scrivania il cui contorno, deposti gli oggetti su un foglio di carta, tracciava Malerba con un pennarello a punta grossa. All’interno del disegno così ottenuto aggiungeva poi una breve scritta a mano: poche parole che «possono dare un senso al profilo o a loro volta girare intorno alla immagine da esso evocata». Così annota l’autore nella premessa alla raccolta di 81 «profili», ora pubblicata da Archinto. (Che vi fosse «Alfabeta» all’origine di questa pratica si evince da un «meta-profilo» con una linea tratteggiata per dividerlo: «la prima metà è per “alfabeta” e la seconda per il Fondo Manoscritti di Maria Corti a Pavia»; fra i primi «profili» realizzati, a confermare il terminus post quem, se ne annovera un altro destinato a «Tèchne», la rivista fondata nel ’69 da Miccini e Pignotti poi proseguita sino a oggi da Paolo Albani e che sul primo numero della nuova serie, settembre 1986, si fregiò appunto del «profilo» malerbiano).

    In alcuni casi si tratta cioè di una didascalia, negli altri di un commento. In generale le parole servono, per dirla sempre con la nota di Malerba, a «riempire il vuoto lasciato dall’oggetto assente»: in quanto, più o meno riuscito e più o meno rassomigliante, «in tutti i casi il profilo racchiude un vuoto, una memoria, un simulacro senza senso». Ed è questo, ovviamente, il lato «concettuale» dell’operazione: talché risulta superflua la didascalia del «profilo»: che recita «questo non è un cucchiaino, è un omaggio a Magritte». È vero per tutti i «profili», che nel loro insieme fanno scattare cortocircuiti appunto simili a quelli dell’arcinoto Ceci n’est pas une pipe. Spiegava Michel Foucault nel saggio dedicato nel ’73 proprio a René Magritte che quella sua sulfurea frasetta smentiva, in un colpo solo, due principi della pittura occidentale: «il primo afferma la separazione tra rappresentazione plastica (che implica la somiglianza) e referenza linguistica (che la esclude)», il secondo «stabilisce l’equivalenza tra il fatto della somiglianza e l’affermazione di un legame rappresentativo». Se il primo è messo in discussione da ogni forma di calligramma o «parola dipinta» (per dirla con Giovanni Pozzi), il secondo viene messo in crisi dalla negazione magrittiana e, più in generale, da ogni forma di disgiunzione tra somiglianza e referenza.

    Esemplari, fra tutti, due dei «profili» di Malerba. In uno si legge «Non è un pescecane! Non tengo pescecani sul mio tavolo!», ma al pescecane pensiamo solo dopo aver letto questa, diciamo, «negazione magrittiana» (sulle prime, invece, avevamo riconosciuto una spillatrice); in un altro, di forma approssimativamente fallica, si legge: «Ce qui ne ressemble à rien n’existe pas. Paul Valéry».

    Solo apparente palinodia, questa, nei confronti della polemica contro la «nevrosi semiologica», la coazione interpretativa della psicoanalisi, da Malerba sconfessata a proposito di un repertorio per molti versi simile a questo, quello dei sogni. Pochi anni prima fu appunto la volta degli oneirogrammi raccolti nell’81 da Einaudi nel Diario di un sognatore (il testo introduttivo verrà ampliato, undici anni dopo, nella Composizione del sogno data a Stile Libero). Definisce il sogno, Malerba che mutua un’espressione dei fisici, un «concetto sfumato ai bordi»; ovvero, rinviando invece all’ars ædificatoria dei romani, un «opus incertum» i cui materiali sono associati per «semplice contiguità»: il che vale altresì, si capisce, per gli pseudo-somiglianti «profili». Così come la loro mancata datazione fa pensare al «tempo del sogno», che «non porta una data» ed è sospeso sempre «in un presente avvolto nella lontananza», in cui «il passato e il futuro si congiungono dall’altra parte del cerchio» (a questo fanno pensare i «profili» più astratti, che non rinviano a oggetti ma a semplici linee – «chissà dove va questa retta infinita. Può darsi che ritorni qua dopo aver fatto il giro dell’universo. Io sto qua e aspetto» – dove si pensa insieme alla linea di Piero Manzoni e a quella di Osvaldo Cavandoli…).

    Per Malerba «il rapporto tra la cosa e l’immagine […] decade nel sogno per assenza della cosa. Le immagini del sogno sono «senza fondamento e non si dispongono secondo un ordine, ma lo creano a posteriori, lo inventano». Il che vale a maggior ragione per i «profili» e la loro referenza incerta. Sogni e «profili» illustrano a perfezione, insomma, la poetica simil-realista, il trompe-l’oeil del «secondo» e meno compreso Malerba. Diceva Foucault che la tecnica piatta e anodina di Magritte parrebbe agli antipodi della fervida iconoclastia di Klee o Kandinskij, ma che in realtà i suoi paradossi ne fanno «una figura opposta e al tempo stesso complementare». Chissà che prima o poi non ci si debba accorgere che valga, questo medesimo rapporto, per il Malerba della Superficie di Eliane nei confronti di quello del Serpente.

 

Alfabeta2, 26, 2013, p. 36.

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