Luca Chiti IL TITANO
Narrano antiche storie di un
aspro e tormentato sentiero che fra i monti da
tutti è disertato: si inoltra serpeggiando tra
oscure e cupe cime e sulle vette eterne si
inerpica sublime. Vertiginosamente procede quel
sentiero, ma, quando giunge al passo, là
si erge un cippo nero. Tarlato è quel
macigno da venti e da bufere, monito al pellegrino che più
voglia vedere. Nessun - che si ricordi -
viandante o disperato oltre la pietra ambigua i passi
ha mai portato. Solo qualcuno ha osato volgere
gli occhi in basso nella profonda valle che si
apre oltre quel sasso, e dice di aver visto un picco
misterioso dal vento e dalla pioggia
perennemente roso e, intorno a lui, le pietre di
antico cimitero: cinquanta pietre nere,
dall'alto del sentiero. Si narran del vallone vicende e
fatti arcani, uditi chi sa quando da
vagabondi strani, che a sera, attorno al fuoco,
zingari variopinti van mormorando ancora dalla
leggenda avvinti. Un tempo era una valle - dicono
- luminosa, di sempiterni fiori e d'erbe
rigogliosa, dove il bizzarro Inverno
giungere non poteva e Primavera azzurra vivida
sorrideva. E là viveva, allora, una razza
divina del cielo e delle stelle che
splendono regina: gioconda intorno al Sire, in se
stessa beata, dall'ira e dal dolore giammai
neppur sfiorata. Ma un dì sulle pendici dei
monti che all'intorno serrano quella valle, al
tramontar del giorno, vider gli dei apparire, avvolta
in un mantello e con la schiena curva come un
inquieto uccello, l'ombra di un pellegrino, il
cappuccio calato, che verso il basso avanza col
volto ottenebrato. Restò sospeso ognuno a
quell'apparizione e gli occhi a lei rivolse
fissando il nero alone; ma invan tentò chiarire
quell'ala di ombra scura che, contro il sol che cala, avvolge
la figura. Allora alzò la mano il Sire
onnipotente e a un tratto tutto, intorno,
fu immobile e silente. Cessò a quel sacro cenno, in
quell'antica sera, persino il dolce vento che
azzurra Primavera, col suo velo leggero, agita
eternamente. E nella valle immota solo il
passo si sente di quel viandante cupo che
avanza inesorato e lascia ombrosa traccia tra i
fiori lungo il prato. Ma quando egli fu giunto ai
piedi del gran trono, a lui si volse il Sire con la
voce di tuono: «Chi sei», gli disse, «e quale
destino a noi ti porta? Che cerchi in questo luogo,
nera figura assorta? Non sai che a voi mortali
passar non è concesso oltre l'antico segno che limita
l'ingresso di questa valle eterna che è la nostra
dimora, e che la vita perde chi tale
legge ignora?». E lo fissò il Titano con lo
sguardo cruccioso, ma non poté discernerne
l'aspetto tenebroso. Non parla il pellegrino dalla
faccia nascosta e al trono del Gigante ancora
più si accosta. Giunto dove voleva, senza
mostrar paura lento risponde al Sire con la
voce sicura: «Conosco quella legge, ma la
mia vita è breve e il tempo la distrugge come il
caldo la neve che sul sentiero evapora senza
lasciare traccia. A che, dunque, temere l'estrema
tua minaccia? Il sasso ho superato, scendendo
alla tua gente per rispondere a un dubbio che è
sorto nella mente. Io porto qui una sfida, o
divino Immortale, alla beata vita che scorre
sempre uguale e qui mi pongo, solo, con la
mia sola scienza, ai piedi del tuo trono e
dell'onnipotenza. Ti chiedo solamente di volere
accettare, poi venga pur la pena che
vorrai decretare». Sbocciò allora un sorriso
nell'occhio onnipotente del Sire gigantesco che là,
serenamente, ascoltava il viandante nella
soave sera. E ancora spirò il vento mite di
Primavera. Chinando il viso in basso, il
divino Titano, un braccio sul ginocchio,
protesa l'altra mano, «È vano, o pellegrino», rispose sorridendo, «tentare chi, soltanto di se
stesso vivendo, immune dalla morte e dal
disfacimento, nel proprio cuore eterno trova
ogni appagamento. Ma vi è bontà nel
nostro petto che eterno spira e il cuor che sempre batte
potente non si adira per la superbia folle delle
vane parole che qui vieni portando al
tramontar del sole. Son dunque pronto al gioco: la
sfida che proponi accetto apertamente, non pongo
condizioni; e con lo stesso impegno tu mi
vedrai lottare che mostra, a volte, il padre
che vedi rotolare, travolto in mezzo all'erba, a
celiare col figlio in amorosa gara e gioioso
pispiglio. Fin d'ora ti prometto la mia
pietà e il perdono e qui, solennemente, la pena ti
condono». Mentre il possente Sire così
gli rispondeva, avvolto nel mantello che nero
lo avvolgeva e lento si agitava al muovere
del vento, non diede il pellegrino segno
di turbamento. «Tu che di onnipotenza», disse,
«così ti vanti, considera chi affronti, prima
di farti avanti. Forse tu non conosci, Eterno
Spensierato, quel che può concepire un
cruccio disperato. Che sai tu della vita che fugge
senza posa e della mente umana
costantemente rosa, mentre trascorre il tempo, dal
germe della morte?». Ma il Sire non rispose ed
affrontò la sorte. Solo guardava in basso a
quell'essere strano, a quell'uccello nero avvolto
nel gabbano che lì, in mezzo agli Eterni,
in se stesso si annida e che, levando il viso, gli
lancia la sua sfida: «Tu che di onnipotenza», gli
disse, «ognor ti vanti e di ridente luce in eterno ti
ammanti, sì che, volendo, a un cenno del
tuo capo splendente puoi trasformar le pietre in
pane, ed ampiamente, mostrandoti ai mortali, ogni
uomo soggiogare per quanto è grande il
mondo che oltre le cime appare; tu che, precipitando da una
rupe scoscesa, giunto, nel vuoto, a mezzo
dell'orrenda discesa da questi dei saresti,
oscillando, salvato e verso il cielo, in alto, di nuovo
sollevato; tu che sapienza e amore
infiniti possiedi e di ogni cosa il fine e la
cagione vedi; tu, dio possente e saggio,
compi ciò che ti chiedo: trasforma questa Corte di
Immortali che vedo, e poi te stesso ancora, nel
corpo oscuro e frale, debole e limitato, di povero
mortale. Altro non chiedo, Sire, né da
te qui pretendo, e solo questa prova di
onnipotenza attendo». Seduto ad ascoltare, di luce
circonfuso, stupì il divino Sire e fu quasi
deluso. «Se non sai concepire», gli
disse, «altro portento, la prova che mi chiedi è di poco
momento». E fece un cenno appena, il gran
capo crollando, e, ad uno ad uno, gli Esseri si
vennero mutando. Si vennero spegnendo in opaca
materia e restò solo il Sire in mezzo
alla miseria di quei miseri corpi, rattratti
e sbigottiti, che, sparsi per il prato, si
aggirano smarriti. E l'occhio a loro volse il Sire
spensierato, ancora sorridendo, in se stesso
beato. Ma vide là, ai suoi piedi, solo
esseri angosciati, una gemente turba di mortali
accasciati; un pugno di dispersi e
stravolti viventi coi volti già segnati e le
membra impotenti, che stringendo le ciglia, si
vanno invan sforzando di penetrar l'oscuro sole che
sta calando. Vedendo allora il Tempo
scorrere su quei visi e l'Ombra progredire sopra i
corpi indecisi, fu intorbidato il cuore del
Divino Padrone, sì che, sull'orlo estremo della
permutazione, fermò il suo cenno a mezzo e un
pensiero lo colse, e tutta la sua mente in se
stesso raccolse. Si fece scuro il volto del
Grande Creatore e al petto suo si appresero,
con acuto dolore, gli artigli sconosciuti di
Dubbio e di Incertezza, scacciandone l'eterna e
immobile Gaiezza. Sconvolto sospirava con le
ciglia crucciose, mentre il dilemma muto davanti
a lui si pose se dell'onnipotenza si dovesse
privare dovendo onnipotenza all'altro
confermare. E si contrasse il volto del
Celeste Signore che si piegò in avanti mutando
di colore. Il capo tra le mani, le braccia
sui ginocchi, immobile ristette mentre
serrava gli occhi. Poi giù dai monti, a un tratto,
scese un umido vento che devastò la valle col soffio
violento. Fuggiva Primavera, fanciulla
impaurita, mentre nell'ora fosca si
consuma la vita dei Compagni del Sire, infermi
e abbandonati, dal vortice del tempo travolti
e sfigurati. Si scosse allora il muto
viandante e là, pietoso, scavò cinquanta fosse per dar
loro riposo. Infine, triste, il campo a
guardare si volse, ed il mantello ombroso,
rabbrividendo, avvolse stretto intorno alle spalle
nella lugubre sera; poi lentamente il passo mosse
nella bufera. Abbandonava il campo con il
viso dimesso, laggiù lasciando, immobile,
l'enorme Dio perplesso che ancora meditava e, con la
mente scossa, chiuso nel suo cervello,
pensava alla riscossa. Qui termina il racconto che a
notte, attorno al fuoco, zingari variopinti narrano al
lume fioco. Ma alcuni, sottovoce, dicono
aver sentito che ancora quel Divino là siede
sbalordito: di muschi ricoperto, il viso
nella mano, preso ancora dal gioco, ancora
pensa invano. E da millenni, immobile, sul
gran trono è restato, nella profonda valle, proprio
nel mezzo al prato mentre che il tempo passa, e il
gran volto cruccioso dal vento e dalla pioggia
perennemente è roso. BALLATA
Oh,
certo, sembra forte il
destino di morte. Eppure,
a ben guardare, l'immobile
Titano che
è là a rimuginare col
volto nella mano, di
quel viandante strano non
ha migliore sorte. NOTA REDAZIONALE Ritrovo questo testo di Chiti fra le
mie carte, senza alcuna indicazione di data né altra specificazione sulla
natura letteraria del testo stesso. Il dattiloscritto, con il nome «Luca Chiti» scritto a mano
da me sopra il titolo, stranamente inizia da pagina 2. Ignoro cosa ci fosse
nella (presumibile) pagina 1. |