pagina della Nuova Tèchne di Paolo Albani

Gianni Celati
MANIFESTO DELL'INVETTIVA
(2022)

 

 

Si può constatare come l’arte dell’invettiva trovi raramente attenzione nelle sistematiche letterarie; forse perché, introducendo la variabile d’un movimento centrifugo, che porta cioè verso la realtà esterna, sarebbe destinata a disequilibrarle. È questa la prima virtù dell’invettiva, che inevitabilmente corregge il pregiudizio formalistico tendente a trascurare la lettura dei contenuti o a considerarli come mero paradosso. Tuttavia lo scopo dell’invettiva non è di ri-presentare in calco verbale la dimensione empirica, quanto di proiettare contraddizioni, consce o inconsce, inerenti alle nostre regole culturali sotto forma di simboli astratti. Aristotele, anche qui risolve meglio d’altri il problema; la retorica è la «facoltà di scoprire possibili mezzi di persuasione in riferimento a qualsiasi soggetto»; il sarcasmo è uno degli arnesi della retorica, di cui ci si serve per mostrare lo sdegno; lo sdegno e il disprezzo sono atteggiamenti de1 retore capaci di suscitare emozioni; le «emozioni sono tutte quelle impressioni che fan sì che gli uomini cambino le loro idee riguardo ai loro giudizi». L’invettiva è quindi un’arte retorica, non poetica (conservando la ripartizione aristotelica), proprio perché il suo fine è esterno, non interno, come quello della tragedia; il suo fine è l’hybris d’un personaggio reale, non d’una finzione.

Claude Lévi-Strauss, nel descriverci il mito come un modo di porre astrattamente le contraddizioni d’una cultura e cercare elementi di mediazione per insanabili dilemmi (l’eroe è per lo più il mediatore), offre la possibilità per una analogia suggestiva: l’invettiva infatti egualmente riconduce a formule astratte (Bene vs Male) contraddizioni consce e inconsce, cercando di risolvere coll’esporle all’esecrazione di chi le patisce; in questo senso è forse una tra le più arcaiche mediazioni tra desiderio e realtà, che conserva in sé intatta una fallacia propria del pensiero primitivo: la confusione della consecutività e della consequenzialità, ovvero l’idea di un rapporto causale tra quel che precede e quel che segue nel tempo. Così 1a maledizione scagliata contro il nemico è ritenuta generare il male del nemico; e se costui muore o si ammala, la relazione causale sembra dimostrata. Nel primo 1ibro della Vita di Cellini, il padre di Benvenuto maledice quel tal Pierino, cui subito dopo crollerà la casa addosso; e Benvenuto commenta: «… nessuno non si faccia mai beffe dei pronostichi [ma qui si tratta di una maledizione coi fiocchi] di uno uomo da bene avendolo ingiustamente ingiuriato, perché non è lui quel che parla, anzi è la voce de Iddio istesso».

L’invettiva mantiene questa fallacia proiettandosi come se fosse davvero punizione dell’avversario, come se l’hybris di costui corrispondesse davvero alla sua eliminazione. Così la mediazione che si attua per mezzo dell’invettiva differisce da quella del mito in quanto esclude ogni dialettica tra i corni della contraddizione, e tenta di risolvere la contraddizione esorcizzando l’ostacolo; per questo è riconducibile, secondo alcuni, allo schema archetipico dei riti di fertilità. E d’altronde a questo diverso aspetto pragmatico corrispondono anche le diversità tecniche più manifeste: nel mito il tentativo di mediazione si esplica sotto forma narrativa, nell’invettiva sotto forma rituale. Così torniamo al primo assunto: proprio per la sua natura di rito l’invettiva, oltre a dover rispettare precise regole (retoriche), non può sottrarsi ad un movimento centrifugo verso la realtà, perché il suo scopo, come quello di qualsiasi rito, è di risolvere la contraddizione tra desiderio e realtà e al tempo stesso persuadere tutti sulla necessità di tale operazione. E questa è la seconda virtù dell’invettiva: di riproporre costantemente e inevitabilmente il senso della contraddizione e il bisogno di risolverla.

Sembra una conseguenza di quanto s’è detto sopra se l’invettiva tende a mostrare l’ostacolo (ciò che si oppone alla mediazione) sotto forma d’iperbole; i simboli astratti che svelano la contraddizione non possono in alcun modo aver effetto fascinatorio, debbono avere un effetto di violenza. D’altronde già per Aristotele ira pietà e paura sono modi per trasformare il giudizio degli uomini; e ciò dà ragione a Roberto Roversi quando dice che la carenza del fustigador odierno è una carenza di tragicità (cfr. La settima zavorra, in «Rendiconti» 4-6, 1962). Vediamo come si esplica la violenza nell’invettiva. Le opposizioni simboliche (alto/basso, normale/anormale; buono/cattivo etc.) mentre generalmente nel mito sono opposizioni forti (ad esempio la coppia eroe/antagonista è connotata dalle opposizioni normale/mostro, umano/animale, beneficatore/sterminatore) nella letteratura narrativa scritta tendono a divenire opposizioni deboli (sicché l’antagonista non è più né mostro né animale né sterminatore); nell’invettiva abbiamo una tendenza simmetricamente inversa: le opposizioni tendono a divenire iperboliche, stabilendo una inconciliabilità di principi contrari ed escludendo qualsiasi dialettica. E non è un caso se due delle maggiori forme di invettiva dei tempi moderni, Gulliver’s Travels e Gargantua, propongono l’opposizione tra eroe gigantesco e antagonista minuscolo, o inversamente (nella seconda parte di Gulliver) tra antagonista gigantesco ed eroe minuscolo. L’iperbole ha funzione persuasiva in quanto diffonde colpa, sospetto, timore: in Drapier’s Letters Swift divulga la notizia che gli Inglesi vogliono fare inghiottire agli Irlandesi le monetine senza valore che Wood coniava per l’Irlanda; non diversamente in A Modest Proposal divulga il sospetto che i possidenti abbiano desideri cannibalistici. In entrambi i casi è chiaro trattarsi di iperboli che restituiscono la forma forte (anzi iperbolica) alle opposizioni di fondo, creando una specie di mito di catastrofe.

    Rendere le opposizioni iperboliche significa abolire le sfumature; già lo sappiamo; la sfumatura è sempre eufemistica o ironica; eufemistica in quanto indebolisce le opposizioni forti, negando, come fa Flaubert, che possano esservi personaggi come l’eroe o il drago; ironica per il senso originale della parola eironeia, che è «rimpicciolirsi», «ridursi». Eufemismo e ironia possono però essere procedimenti di presentazione dell’invettiva, con un artificio che può definirsi della doppia finzione; e allora avremo la satira, un’invettiva che utilizza complessi artifici di costruzione propri d’un genere letterario. Perché l’invettiva in sé non è un genere letterario, è piuttosto ciò che gli Inglesi direbbero a symbolic mode, una maniera simbolica esplicantesi attraverso qualsiasi forma di attività discorsiva. Ed ecco la doppia finzione: Lemuel Gulliver con una finzione d’innocenza (ironia) introduce una finzione iperbolica descrivendo l’Inghilterra del suo tempo al re di Brobdignag; in questo caso la finzione iperbolica è ottenuta col selezionare solo alcuni materiali (attinenti alle mostruosità della guerra) e spacciandoli come resoconto oggettivo. Ma in tali casi eufemismo e ironia non indeboliscono le opposizioni di fondo, anzi, con artificio di costruzione le rendono più persuasive. Sicché il loro uso non corrisponde ad alcuna nuance. Ma da un punto di vista ideologico privilegiare le opposizioni forti o iperboliche e scartare le opposizioni deboli o sfumate significa affermare una forma di pensiero antirelativistico; significa necessariamente rigettare ogni possibile livellamento delle idee-valori e qualsiasi razionalizzazione inibitoria circa i concetti arcaici di Bene e Male. E questa è la terza virtù dell’invettiva.

            Per convincerci che questa è una costante imprescindibile dell’invettiva basterà esaminare sparsi esempi di tutte le epoche e di tutti i paralleli. In questo numero del «Caffè» si produce, come documentazione, il Sommario ritratto del conte di Wharton, che è la più aperta vituperatio swiftiana; in essa il lettore osserverà come la totale assenza di sfumature dia luogo ad una sorta di gioco razionale (ma è la razionalità della retorica), il cui scopo è convincerci dell’esistenza su questa terra, in carne ed ossa, qui tra noi, del Grande Oppressore. Programma antitetico, questo, a quello flaubertiano, il cui fine è convincerci che l’unico personaggio plausibile e reale è l’imbécile. Si vedrà poi che il Grande Oppressore altro non è che una moderna variante del Maligno, come mostra il suo istinto di profanazione. Di fronte a questo documento i dotti disquisitori su ciò che è la letteratura, sulla necessità di far letteratura o di evadere da essa, forse si placheranno. Perché questo genere di «letteratura», ovvero di contenuti letterari, squalifica le loro dispute bellettristiche, risparmiando con parvenze identiche in ogni tipo di discorso umano: come pamphlet, romanzo, discorso politico, filosofico, scientifico, come polemica religiosa, ideologica o personale, come poesia, satira, dramma. E quando rispunta conserva intatte le sue regole (che non sono regole formali) e il suo orientamento, che è l’affermazione d’un pensiero antirelativistico. E come ulteriore prova non sapremmo citare esempio migliore del Manifesto comunista del 1848; il massimo esempio, a nostro parere, di invettiva moderna, dove quest’arte recupera tutte le proprie virtualità arcaiche, trasformando i dati oggettivi in iperbole allegorica, diffondendo colpa, sospetto, timore, riproponendo nel modo più netto il contrasto tra desiderio e realtà, e la contraddizione viva che l’uomo patisce: non v’è nulla di paragonabile nel nostro ed in quel secolo, anche considerando il Manifesto sotto un profilo strettamente letterario. E questa è l’invettiva.

 

 

 


Nota

 

L’invettiva è un tema caro a Gianni Celati. Ad esempio molti dei sonetti contenuti in Sonetti del Badalucco nell’Italia odierna (Feltrinelli 2010), libro in cui Celati presenta 57 sonetti scritti dall’attore veneziano Attilio Vecchiatto (1910-1993), sono delle invettive contro l’istupidimento degli italiani che credono solo alla pubblicità e alle macchinette elettroniche.

            Questo è un sonetto scritto da Vecchiatto in un caffè di Roma tre mesi dopo il suo ritorno in Italia, avvenuto nel 1988:

 

Torna da vecchio in patria il viaggiatore

e guarda il suo paese ritrovato,

ora inospite triviale, deturpato,

in mano a furbi senza alcun pudore:

 

fogna di massa, paese d’orrore

e di vergogne da togliere il fiato,

con quei somari del televisore

che fan del più fetente il più quotato.

 

Con chi scambiare idee in tal squallore,

dove impera il maramaldo unto e beato?

Cosa fare in balìa d’un truffatore

che aizza tutto il popolo intronato?

 

Che dire? È in fogne, fango e brulicame

che fa carriera il Badalucco infame.

 

            Sull’ultima recita dell’attore Vecchiatto, ammirato da Laurence Olivier, Jean-Louis Barrault, Jeanne Moreau e molti altri, nel teatro di Rio Saliceto, in provincia di Reggio Emilia, si veda Gianni Celati, Recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto (Feltrinelli 1996).

Il Manifesto dell’invettiva che qui si pubblica è uscito sulla rivista «il Caffè», 4, agosto-settembre 1968, pp. 50-53. Nello stesso numero compaiono due scritti di Jonathan Swift: Dalla favola della botte. II parte, nella traduzione dello stesso Celati (pp. 36-49) (la prima parte, sempre tradotta da Celati, era uscita sul n. 3, giugno 1968, de «il Caffè», pp. 27-47; Celati aveva curato l’edizione di La favola della botte, fiaba in origine uscita anonima nel 1704, presso l’editore Sampietro di Bologna nel 1966), e Sommario ritratto di sua Eccellenza il Conte di Wharton, Lord Luogotenente d’Irlanda (pp. 54-61), traduzione fatta da Ciro Monti del libello pubblicato anonimo da Swift a Londra nel 1710. E più avanti, ancora sul numero 4, 1968 de «il Caffè», sono stampati Nove nonsensi di Lewis Carroll recati in ottosillabi italiani da Gianni Celati e illustrati con immagini dell’epoca da Antonio Faeti (pp. 81-89).

            Si ringraziano per l’autorizzazione Gillian Halley, moglie di Celati, e Anna Busetto Vicari, ideatrice e curatrice dell’«Archivio e centro studi de “il Caffè”».

 

la redazione


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Il testo di Gianni Celati è apparso sul n. 30, 2022 della rivista Nuova Tèchne.
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