Gianni Celati
MANIFESTO DELL'INVETTIVA (2022)
Si può constatare come l’arte dell’invettiva trovi raramente
attenzione nelle sistematiche letterarie; forse perché, introducendo la variabile
d’un movimento centrifugo, che porta cioè verso la realtà esterna, sarebbe destinata
a disequilibrarle. È questa la prima virtù dell’invettiva, che inevitabilmente
corregge il pregiudizio formalistico tendente a trascurare la lettura dei contenuti
o a considerarli come mero paradosso. Tuttavia lo scopo dell’invettiva non è di
ri-presentare in calco verbale la dimensione empirica, quanto di proiettare contraddizioni,
consce o inconsce, inerenti alle nostre regole culturali sotto forma di simboli
astratti. Aristotele, anche qui risolve meglio d’altri il problema; la retorica
è la «facoltà di scoprire possibili mezzi di persuasione in riferimento a qualsiasi
soggetto»; il sarcasmo è uno degli arnesi della retorica, di cui ci si serve per
mostrare lo sdegno; lo sdegno e il disprezzo sono atteggiamenti de1 retore capaci
di suscitare emozioni; le «emozioni sono tutte quelle impressioni che fan sì che
gli uomini cambino le loro idee riguardo ai loro giudizi». L’invettiva è quindi
un’arte retorica, non poetica (conservando la ripartizione aristotelica), proprio
perché il suo fine è esterno, non interno, come quello della tragedia; il suo fine
è l’hybris d’un personaggio reale, non d’una finzione. Claude Lévi-Strauss, nel descriverci il mito come un modo
di porre astrattamente le contraddizioni d’una cultura e cercare elementi di mediazione
per insanabili dilemmi (l’eroe è per lo più il mediatore), offre la possibilità
per una analogia suggestiva: l’invettiva infatti egualmente riconduce a formule
astratte (Bene vs Male) contraddizioni consce e inconsce, cercando di risolvere
coll’esporle all’esecrazione di chi le patisce; in questo senso è forse una tra
le più arcaiche mediazioni tra desiderio e realtà, che conserva in sé intatta
una fallacia propria del pensiero primitivo: la confusione della consecutività
e della consequenzialità, ovvero l’idea di un rapporto causale tra quel che precede
e quel che segue nel tempo. Così 1a maledizione scagliata contro il nemico è ritenuta
generare il male del nemico; e se costui muore o si ammala, la relazione causale
sembra dimostrata. Nel primo 1ibro della Vita di Cellini, il padre di Benvenuto
maledice quel tal Pierino, cui subito dopo crollerà la casa addosso; e Benvenuto
commenta: «… nessuno non si faccia mai beffe dei pronostichi [ma qui si tratta
di una maledizione coi fiocchi] di uno uomo da bene avendolo ingiustamente
ingiuriato, perché non è lui quel che parla, anzi è la voce de Iddio istesso». L’invettiva mantiene questa fallacia proiettandosi come
se fosse davvero punizione dell’avversario, come se l’hybris di costui
corrispondesse davvero alla sua eliminazione. Così la mediazione che si attua
per mezzo dell’invettiva differisce da quella del mito in quanto esclude ogni
dialettica tra i corni della contraddizione, e tenta di risolvere la
contraddizione esorcizzando l’ostacolo; per questo è riconducibile, secondo
alcuni, allo schema archetipico dei riti di fertilità. E d’altronde a questo
diverso aspetto pragmatico corrispondono anche le diversità tecniche più
manifeste: nel mito il tentativo di mediazione si esplica sotto forma narrativa,
nell’invettiva sotto forma rituale. Così torniamo al primo assunto: proprio per
la sua natura di rito l’invettiva, oltre a dover rispettare precise regole
(retoriche), non può sottrarsi ad un movimento centrifugo verso la realtà,
perché il suo scopo, come quello di qualsiasi rito, è di risolvere la
contraddizione tra desiderio e realtà e al tempo stesso persuadere tutti sulla
necessità di tale operazione. E questa è la seconda virtù dell’invettiva: di
riproporre costantemente e inevitabilmente il senso della contraddizione e il
bisogno di risolverla. Sembra una conseguenza di quanto s’è detto sopra se l’invettiva
tende a mostrare l’ostacolo (ciò che si oppone alla mediazione) sotto forma d’iperbole;
i simboli astratti che svelano la contraddizione non possono in alcun modo aver
effetto fascinatorio, debbono avere un effetto di violenza. D’altronde già per
Aristotele ira pietà e paura sono modi per trasformare il giudizio degli uomini;
e ciò dà ragione a Roberto Roversi quando dice che la carenza del fustigador
odierno è una carenza di tragicità (cfr. La settima zavorra, in «Rendiconti»
4-6, 1962). Vediamo come si esplica la violenza nell’invettiva. Le opposizioni
simboliche (alto/basso, normale/anormale; buono/cattivo etc.) mentre
generalmente nel mito sono opposizioni forti (ad esempio la coppia
eroe/antagonista è connotata dalle opposizioni normale/mostro, umano/animale,
beneficatore/sterminatore) nella letteratura narrativa scritta tendono a
divenire opposizioni deboli (sicché l’antagonista non è più né mostro né
animale né sterminatore); nell’invettiva abbiamo una tendenza simmetricamente
inversa: le opposizioni tendono a divenire iperboliche, stabilendo una inconciliabilità
di principi contrari ed escludendo qualsiasi dialettica. E non è un caso se due
delle maggiori forme di invettiva dei tempi moderni, Gulliver’s Travels
e Gargantua, propongono l’opposizione tra eroe gigantesco e antagonista
minuscolo, o inversamente (nella seconda parte di Gulliver) tra
antagonista gigantesco ed eroe minuscolo. L’iperbole ha funzione persuasiva in
quanto diffonde colpa, sospetto, timore: in Drapier’s Letters Swift
divulga la notizia che gli Inglesi vogliono fare inghiottire agli Irlandesi le
monetine senza valore che Wood coniava per l’Irlanda; non diversamente in A
Modest Proposal divulga il sospetto che i possidenti abbiano desideri cannibalistici.
In entrambi i casi è chiaro trattarsi di iperboli che restituiscono la forma
forte (anzi iperbolica) alle opposizioni di fondo, creando una specie di mito
di catastrofe. Rendere le opposizioni iperboliche
significa abolire le sfumature; già lo sappiamo; la sfumatura è sempre
eufemistica o ironica; eufemistica in quanto indebolisce le opposizioni forti,
negando, come fa Flaubert, che possano esservi personaggi come l’eroe o il
drago; ironica per il senso originale della parola eironeia, che è
«rimpicciolirsi», «ridursi». Eufemismo e ironia possono però essere
procedimenti di presentazione dell’invettiva, con un artificio che può
definirsi della doppia finzione; e allora avremo la satira, un’invettiva che
utilizza complessi artifici di costruzione propri d’un genere letterario.
Perché l’invettiva in sé non è un genere letterario, è piuttosto ciò che gli
Inglesi direbbero a symbolic mode, una maniera simbolica esplicantesi
attraverso qualsiasi forma di attività discorsiva. Ed ecco la doppia finzione:
Lemuel Gulliver con una finzione d’innocenza (ironia) introduce una finzione
iperbolica descrivendo l’Inghilterra del suo tempo al re di Brobdignag; in
questo caso la finzione iperbolica è ottenuta col selezionare solo alcuni
materiali (attinenti alle mostruosità della guerra) e spacciandoli come resoconto
oggettivo. Ma in tali casi eufemismo e ironia non indeboliscono le opposizioni
di fondo, anzi, con artificio di costruzione le rendono più persuasive. Sicché
il loro uso non corrisponde ad alcuna nuance. Ma da un punto di vista
ideologico privilegiare le opposizioni forti o iperboliche e scartare le
opposizioni deboli o sfumate significa affermare una forma di pensiero antirelativistico;
significa necessariamente rigettare ogni possibile livellamento delle
idee-valori e qualsiasi razionalizzazione inibitoria circa i concetti arcaici
di Bene e Male. E questa è la terza virtù dell’invettiva. Per convincerci che questa è una
costante imprescindibile dell’invettiva basterà esaminare sparsi esempi di
tutte le epoche e di tutti i paralleli. In questo numero del «Caffè» si
produce, come documentazione, il Sommario ritratto del conte di Wharton,
che è la più aperta vituperatio swiftiana; in essa il lettore osserverà
come la totale assenza di sfumature dia luogo ad una sorta di gioco razionale
(ma è la razionalità della retorica), il cui scopo è convincerci dell’esistenza
su questa terra, in carne ed ossa, qui tra noi, del Grande Oppressore.
Programma antitetico, questo, a quello flaubertiano, il cui fine è convincerci
che l’unico personaggio plausibile e reale è l’imbécile. Si vedrà poi
che il Grande Oppressore altro non è che una moderna variante del Maligno, come
mostra il suo istinto di profanazione. Di fronte a questo documento i dotti
disquisitori su ciò che è la letteratura, sulla necessità di far letteratura o
di evadere da essa, forse si placheranno. Perché questo genere di
«letteratura», ovvero di contenuti letterari, squalifica le loro dispute bellettristiche,
risparmiando con parvenze identiche in ogni tipo di discorso umano: come pamphlet,
romanzo, discorso politico, filosofico, scientifico, come polemica religiosa,
ideologica o personale, come poesia, satira, dramma. E quando rispunta conserva
intatte le sue regole (che non sono regole formali) e il suo orientamento, che
è l’affermazione d’un pensiero antirelativistico. E come ulteriore prova non
sapremmo citare esempio migliore del Manifesto comunista del 1848; il
massimo esempio, a nostro parere, di invettiva moderna, dove quest’arte
recupera tutte le proprie virtualità arcaiche, trasformando i dati oggettivi in
iperbole allegorica, diffondendo colpa, sospetto, timore, riproponendo nel modo
più netto il contrasto tra desiderio e realtà, e la contraddizione viva che l’uomo
patisce: non v’è nulla di paragonabile nel nostro ed in quel secolo, anche
considerando il Manifesto sotto un profilo strettamente letterario. E
questa è l’invettiva. Nota L’invettiva è un tema caro a Gianni Celati. Ad esempio molti
dei sonetti contenuti in Sonetti del Badalucco nell’Italia odierna
(Feltrinelli 2010), libro in cui Celati presenta 57 sonetti scritti dall’attore
veneziano Attilio Vecchiatto (1910-1993), sono delle invettive contro l’istupidimento
degli italiani che credono solo alla pubblicità e alle macchinette
elettroniche. Questo è
un sonetto scritto da Vecchiatto in un caffè di Roma tre mesi dopo il suo
ritorno in Italia, avvenuto nel 1988: Torna da vecchio in patria il viaggiatore e guarda il suo paese ritrovato, ora inospite triviale, deturpato, in mano a furbi senza alcun pudore: fogna di massa, paese d’orrore e di vergogne da togliere il fiato, con quei somari del televisore che fan del più fetente il più quotato. Con chi scambiare idee in tal squallore, dove impera il maramaldo unto e beato? Cosa fare in balìa d’un truffatore che aizza tutto il popolo intronato? Che dire? È in fogne, fango e brulicame che fa carriera il Badalucco infame. Sull’ultima
recita dell’attore Vecchiatto, ammirato da Laurence Olivier, Jean-Louis
Barrault, Jeanne Moreau e molti altri, nel teatro di Rio Saliceto, in provincia
di Reggio Emilia, si veda Gianni Celati, Recita dell’attore Vecchiatto nel
teatro di Rio Saliceto (Feltrinelli 1996). Il Manifesto dell’invettiva che qui si pubblica è
uscito sulla rivista «il Caffè», 4, agosto-settembre 1968, pp. 50-53. Nello
stesso numero compaiono due scritti di Jonathan Swift: Dalla favola della botte.
II parte, nella traduzione dello stesso Celati (pp. 36-49) (la prima
parte, sempre tradotta da Celati, era uscita sul n. 3, giugno 1968, de «il Caffè»,
pp. 27-47; Celati aveva curato l’edizione di La favola della botte, fiaba
in origine uscita anonima nel 1704, presso l’editore Sampietro di Bologna nel
1966), e Sommario ritratto di sua Eccellenza il Conte di Wharton, Lord
Luogotenente d’Irlanda (pp. 54-61), traduzione fatta da Ciro Monti del
libello pubblicato anonimo da Swift a Londra nel 1710. E più avanti, ancora sul
numero 4, 1968 de «il Caffè», sono stampati Nove nonsensi di Lewis Carroll
recati in ottosillabi italiani da Gianni Celati e illustrati con immagini dell’epoca
da Antonio Faeti (pp. 81-89). Si
ringraziano per l’autorizzazione Gillian Halley, moglie di Celati, e Anna
Busetto Vicari, ideatrice e curatrice dell’«Archivio e centro studi de “il
Caffè”». la redazione Il testo di Gianni Celati è apparso sul n. 30, 2022 della rivista Nuova Tèchne. Per tornare al sommario del n. 30 della rivista cliccate qui. __________________________ Home page Archivio di Tèchne |