Emilio Cecchi
«QUIA
IMPERFECTUM»
Gli Indiani Navajo sono famosi nell’arte tessile, ma pare che anche questa vada guastandosi: i Navajo si sono messi in testa di raffinarla, ai disegni tradizionali sostituendo disegni «moderni». I più bei tessuti Navajo, che vidi a San Francisco, e soprattutto a Santa Fé nel Museo d’Arte Indiana, erano vecchi d’un secolo o un secolo e mezzo. E l'austero accordo delle tinte: rosso sangue, turchino elettrico, grigio tortora, rammentava quello dei colori delle navi, delle macchine, e di certe bandiere. Quando una donna Navajo sta per finire uno di questi tessuti, essa lascia nella trama e nel disegno una piccola frattura, una menda: «affinché l'anima non le resti prigioniera dentro al lavoro». Questa mi sembra una profonda lezione d'arte: vietarsi, deliberatamente, una perfezione troppo aritmetica e bloccata. Perché le linee dell'opera, saldandosi invisibilmente sopra sé stesse, costituirebbero un labirinto senza via d'uscita; una cifra, un enigma di cui s'è persa la chiave. Per primo, s'irretirebbe nell'inganno lo spirito che ha creato l'inganno. E non è anche la spiegazione perché certi grandi artisti misero sempre nella propria opera un segno d'incompiuto; quasi un invito al mistero, alla collaborazione naturale? Temevano che l'opera, in certo modo, sarebbe viziata e maledetta, se vi restavano dentro «prigionieri». Sapevano quanto essa riuscirebbe più viva, in virtù d'una tal sprezzatura nella quale s'attesti che l'uomo, nell'atto stesso di creare, riconosce la fatalità della propria imperfezione. In un mirabile saggio: Quia imperfectum, Max Beerbohm sfiorò alcuni di questi motivi. E più avrebbe potuto dire, se avesse voluto. A sua volta, forse, ebbe paura della perfezione. È un avvertimento contro il materialismo estetico. A forza di limare e calibrare, nel miraggio d'una compiutezza meticolosa, e povera di suggestioni naturali, di quante pagine abbiamo finito col farei un carcere, una gabbia. Ci siamo tirati la porta alle spalle. Da quelle vertiginose scacchiere di parole, da quelle tavole pitagoriche che quadrano da tutte le parti, non abbiamo saputo uscirne mai più. Nota Il brano di Emilio Cecchi è tratto da Messico (Adelphi, Milano, 1985, pp. 50-52). Nella prefazione Italo Calvino considera le riflessioni di Cecchi sui tessuti degli indiani Navajos una lezione di poetica e una vera e propria gemma dell'intero libro. Il saggio, citato da Cecchi, Quia imperfectum dello scrittore, saggista e caricaturista inglese Max Beerbohm (1872-1956) è del 1918 e si trova in And Even Now, William Heinemann Ltd., London, 1920. la redazione Tèchne, 21, 2012, p. 97.
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