POESIE
di
Augusto Blotto
(estratto)

Già stati amore e ora solo còrsi,
sgombrini, alla banchina
di Pisa, melodiante sfarzi rossi
di fari sotto la guerra - i treni
pulverulenti, piovigginosi e poi
annodati alla bruma del castello
giunto su verde notte in fiume e scarico -
     quadri
dondolanti da mano d’emigranti
sono stati posati. Qui. Lampeggia
vizioso su faldetta, tendina, a meridione.

Notte stilla a banchine lungo caduto
Arno di case rimbrottanti e poi
è Arno o sangue quello che ritorna
sempre più borchia, feltrato, a ditale
e scioglie ora campane,
puntellato un muro si sfa,
luci dai tavolini all’aprire dei camerieri
frettoloso mostrano un mondo di gesti
bianchi, servire in cruscotto, non agile
- nel sentirsi slombati
   pezzi di cartone verde
a alberghi di «viaggiatori», nell’Apuania
nel gelo insaponato di tonsure, creole -
dopo tutto; ritornano poi treni
sonda il sonno chiarità di rumori pervenuti
lorda nell’alta notte, voluta espellere dalla stanchezza, ai tavoli
lasciati talvolta in mamma per qualche passeggiata di cencio
e gelatinoso udir rumori di cofani umidi
trasvolanti, il notturno
al freddo che scuote, e a tabelle lunghe di amaranto, nei corridoi eleganti
col lampone di luce, nel rabbrividire sotto la lanetta, sonno -
coi pensieri della notte attaccati come tu
fai ben la rèmora, desiderio di ampliazione, mai per memoria
ma per dovere che anche te «finisce» (alla ganster),
lontra, peso anche di
riistoriare se altro vive intorno.
    Un carrello
porta la neve dalla notte d’Innsbruck,
stinge una banda nera, morte e sorriso
trovano una fede di lenzuolo per questa notte almeno.
Come se si fosse esiliati tra i feroci studiosi,
tra gli umanisti e i tecnici provetti,
galline di giovani professori, spada nelle povere costole, disgraziati.
Nell’origine tristissima del limite, che voglia
questo intero sùbito o fa capire o si
sa che il serpeggiamento della sola covata,
l’intelligenza con labbri molto spicci
quando si articola il dosso del tirarsi in dentro,
concludere non ha quelle meditazioni acquartieranti, poste,
che a gaz vengono da viscere, con il cupido
di rosmarino occhio seguirne la lentezza
di vincita: ai fitti stipiti del già cesto,
già offertosi, duro di nocche come un arancio, mai
redarguire; o se il dolore del limite
nevrosi sfrigia come in notti rosse
di dolciastra neve, evento artritico
e suicidiale, ballare intestino sciroppo,
agli altrovi cromare con solo impazienza che nulla
tocca, si disse stregatetta, il solo
che ci sia un colore diverso o una parte di provenienza
topografica, sbriciolando buccìna di quel
di salvezza che può, cattiva, sete di sollievo
merluzzo, sbracato, massellotto di ciglia, verghe.
 



Nota

Di fronte alle poesie di Augusto Blotto (1933), poeta, impiegato presso una piccola impresa metalmeccanica a Torino, non si può restare indifferenti. Nasce spontaneo un moto di scandaloso dispetto e rispetto allo stesso tempo.
Dello stile di Blotto colpisce la sintassi insolita, spregiudicata, l’accostamento sorprendente delle parole, le metafore temerarie, non di rado costruite sul filo spericolato di un nonsense disarmante. Alcuni versi di Blotto fanno pensare al gioco dei “cadaveri squisiti” dei surrealisti e, per i continui slittamenti del significato, verrebbe di pensare al Blotto come ad una sorta di (forse involontario) “Burchiello contemporaneo”.
Il gusto per il “bizzarro” si ritrova anche nei titoli delle raccolte poetiche, quasi tutte pubblicate con l’editore Rebellato di Padova: Il 1950 civile - (La stanchezza iniziale, I) (1959); Dolcezza, bonomia - (La stanchezza iniziale, II) (1959); Una via di furbizia (1959); Trepide di prestigio (1959); I fogliami - la frivolezza legnosa e culturale (1959); Autorevole e tanto disperso (1960); Magnanimità (1958); Castelletti, regali, vedute (1960); I boli (I baldi) (1960); La forza grossa e varia (Dal baffo del modesto, del sorriso, l’accettato, e l’intero) (1962); Le proprie possibilità (1962); Svenevole a intelligenza (1961).



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