Max Aub
DELITTI ESEMPLARI
il Caffè
2/3 giu. (lug.) 1969
pp. 60-76
traduzione di Dario Puccini
— Non l'ho fatto apposta.
Neanche io. È tutto ciò che le venne da dire e da
ripetere
a quella idiota, di fronte alla brocca ridotta in pezzi. Ed era quella
della mia buona mamma, che Dio l'abbia in gloria! La feci a pezzi. Vi
giuro
che non pensai, neppure un istante, alla legge del taglione. Fu
più
forte di me.
Lo uccisi perché mi parlò male di Juan Alvarez,
che
è mio caro amico e perché mi risulta che quanto diceva
era
tutta una menzogna.
Lo uccisi perché era di Vinaroz.
— Meglio morta! — mi disse. E l'unica cosa che desideravo era
darle
soddisfazione!
— È così semplice: Dio è la creazione, è
in ogni istante ciò che nasce, ciò che continua, e anche
ciò che muore. Dio è la vita, ciò che segue,
l'energia
e anche la morte, che è forza e continuazione e
continuità.
Cristiani, questi che temono la morte quando gli promettono la
resurrezione?
Meglio farla finita con loro una volta per tutte. Che non rimanga
traccia
di credenti così meschini e miserabili! Appestano l'aria. Quelli
che temono di morire non meritano di vivere. Quelli che temono la morte
non hanno fede. Imparino, una buona volta, che esiste l'altro mondo!
Solo
Allah è grande!
Si puliva i denti come se non sapesse far altro. Lasciava lo
stuzzicadenti
al lato del piatto per tornare al suo frugare appena aveva terminato di
masticare. Ore e ore, dall'alto in basso, dal basso in alto, da destra
a sinistra, da sinistra a destra, da davanti a indietro, da indietro a
davanti. Sollevandosi il labbro superiore, facendolo leporino,
mostrando
gli incisivi — uno dopo l'altro — giallognoli; abbassando il labbro
inferiore
fino alla gengiva tarlata: finché gli sanguinò; soltanto
un poco. Gli trasformai lo stuzzicadenti in baionetta, e glielo
conficcai
fino alle nocche.
Si strozzò fino al giudizio finale. Non temo di
vedergli
allora il viso. Il maialesco lascia il passo all'ardimento.
Sono barbiere. È cosa che succede a molti. Oso perfino dire
che sono un bravo barbiere. Ognuno ha le sue manie. A me
m'infastidiscono
i foruncoletti.
Avvenne così: mi accinsi a radere tranquillamente, insaponai
con destrezza, affilai il rasoio sulla coramella, lo addolcii sul palmo
della mano. Sono un buon barbiere! Non ho mai scorticato nessuno!
Quell'uomo
poi aveva una barba spessa. Ma aveva foruncoletti. Riconosco che quei
fignoli
non avevano niente di particolare. Ma a me m'infastidiscono, mi danno
il
nervoso, mi fanno rimuginare il sangue. Superai il primo, senza
difficoltà;
il secondo sanguinò dalla base. Non so che cosa mi accadde a
quel
punto, ma credo che fu cosa naturale: allargai la ferita e poi, senza
poterci
mettere riparo, con un taglio, gli segai il collo di netto.
Cominciò ad agitare il caffelatte con il cucchiaino,
il liquido
arrivava all'orlo, mosso dalla violenta azione dell'utensile
d'alluminio.
(Il bicchiere era ordinario, il bar tra i più andanti, il
cucchiaino
usato, pastoso di passato). Si udiva il rumore del metallo contro il
vetro.
Tin, tin, fin, tin. E il caffelatte girava e rigirava, con un foro al
centro.
Un Maelstrom. Io ero seduto di fronte. Il bar era pieno di gente.
L'uomo
continuava a mescolare e rimescolare, immobile, sorridente, e mi
guardava.
Qualcosa mi si ribellava dentro. Lo fissai in modo tale che si
sentì
in obbligo di giustificarsi:
— Ancora lo zucchero non si è sciolto.
Per dimostrarmelo diede dei colpetti sul fondo del bicchiere. E subito
tornò con rinnovata energia ad agitare metodicamente il
beveraggio.
Giri e rigiri, senza mai fermarsi, e il rumore del cucchiaino sul bordo
del vetro. Tan, tan, tan. Di continuo, di continuo, senza riposo,
eternamente.
Gira e rigira, gira e rigira. Mi guardava sorridendo. Allora estrassi
la
pistola e sparai.
Sono sicuro che rise di me. Di quello che stavo
sopportando. Mi metteva
e rimetteva il trapano sul nervo. Con intenzione. Nessuno mi
toglierà
quest'idea dalla testa. Mi prendeva pure in giro: «Questo lo
sopporterebbe
anche un bambino». A voi non v'hanno mai messo quelle rotelline
del
demonio sopra un dente cariato? Dovreste congratularvi con me. Vi
assicuro
che d'ora in poi staranno più attenti, forse strinsi troppo. Ma
non sono neppure responsabile del fatto che avesse la strozza
così
fragile. E del fatto che mi si mettesse tanfo a portata di mano:
così
sicuro di sé, così superiore. Così felice.
La squartai dal basso in alto, quasi fosse una pecora,
perché
guardava indifferente il soffitto mentre faceva l'amore.
UNA NOTA
di
Anna Busetto Vicari
Max Aub passò una sola volta al Caffè e
gli regalò
i Delitti Esemplari, che Vicari pubblicò nella
traduzione
di Dario Puccini, sul n. 2-3 del 1969. Forse Vicari gli aveva chiesto:
«Aub di che umore sei, oggi?» «Humour nero,
direi».
«Benissimo, i Delitti li pubblico, io».
I Delitti usciti sul Caffè, non corrispondono
perfettamente a quelli dell’edizione fatta più tardi da
Sellerio,
ma della cosa non conosciamo il colpevole.
Non è sempre bello, giusto e utile catalogare e definire, ma
forse Breton avrebbe aggiornato la sua antologia dello humour nero
includendo
i Delitti esemplari di Aub.
E il Caffè che li stampò fu un vivaio di morti
violente, secondo la teoria di De Quincey dell’assassinio come una
delle
belle arti, dove è richiesto che il soggetto scelto goda buona
salute,
«essendo assolutamente barbaro l’assassinio di un uomo
malato»,
meglio ancora, invece, se ha numerosi figlioli, che dipendono
totalmente
da lui.
Molti testi pubblicati sul Caffè furono un’estetica del
perfetto funzionamento degli ingranaggi del patibolo, che in fondo
è
assegnato a ciascuno di noi e di fronte al quale sappiamo di non potere
chiedere la grazia.
E al confine di quel nulla sta anche il Riso che non concede la grazia
della giustificazione, che non si confonde nella compassionevole
caricatura.
Così, non ammettono giustificazioni i Plotoni d’esecuzione
del messicano Julio Torri (il Caffè, 1,1961) e
la «potatura»
che Calvino esemplificò sul n. 4 del ‘69, nella Decapitazione
dei Capi, prevedendo l’uccisione rituale della classe dirigente.
«La gretta mentalità di coloro che comandano la scorta
priva le fucilazioni di un buon numero dei loro più ferventi
tifosi»,
scriveva Torri.
Non è ammissibile che la sentenza non sia eseguita in modo
perfetto:
non si tollerano «divise in disordine, barba lunga, scarponi
impolverati».
«Il guaio è che lì accanto c’era un bisturi. Alla
seconda strizzata lo infilzai. Dal basso in alto: secondo le
regole»,
confessa uno degli assassini registrati da Aub.
Il rispetto delle regole è assolutamente richiesto per
un’esecuzione
perfetta. E per Vicari, negli anni del conformismo, in cui spesso anche
la satira era stipendiata, la regola doveva essere «distruggere
di
continuo» le forme e le sostanze della convenzione.
Il delitto perfetto e gratuito faceva sì che lo humour uccidesse
il senso univoco, rispettando il divieto di «chiedere grazia al
futuro.
Niente è mai valido una seconda volta: le piccole verità
sono le idee usate, da buttare di continuo, bisogna oltrepassare i
limiti
del riso per giungere al turbine di una crudeltà
sistematica».
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